Terapia e pallottole: se la mafia va dallo psicologo

La mente criminale

«Se mio padre sa che vengo qua ci ammazza». Se a parlare è il figlio di un mafioso, la frase non può essere trattata esclusivamente come fantasia paranoidea da elaborare. Come si lavora con un paziente che ti dice «questo è meglio per lei che non glielo dico», e tu pensi che forse è veramente così… O quando racconta dei calzoni insanguinati del padre e questo corrisponde a un periodo in cui qualche strage era finita sui giornali? Oppure, quando pensi che tu sei tenuto al segreto professionale ma non sai se la mafia crede che non parlerai? Realtà, come si vede, difficili, complesse, rischiose, emotivamente sconvolgenti, non facili da affrontare, anche dal punto di vista della metodologia di lavoro clinico.

Spesso erano esperienze molto particolari, come quella di andare a fare una visita domiciliare al paese di Rita Atria ed essere accolti con grida e insulti perché scambiati per giornalisti. Mi capitò un’esperienza particolare per chi, come gli psicoterapeuti, fa un mestiere che di solito è sostanzialmente riservato. Era infatti uscito il film Terapia e pallottole e la stampa internazionale si interessò al fatto che realmente c’erano degli analisti che per una sfortunata contingenza (vivere in Sicilia e poter raccogliere direttamente dati) studiavano la mafia. Questo fenomeno interessò, e continua a interessare, la grande stampa italiana e internazionale occidentale. Devo dire, per la verità, che molti di questi giornalisti non erano alla ricerca del facile scoop, ma avevano un autentico desiderio di approfondimento che li portava a fare domande stimolanti e utili (Ricordo, con particolare gratitudine gli ampi approfondimenti di Der Spiegel, New York Sunday e del Corriere salute. Ho ricevuto, inoltre, richieste di approfondimento da quasi tutti i Paesi europei, ma anche statunitensi, sudamericani, giapponesi ecc. Un fenomeno curioso è che si chiedevano come queste cose potessero riguardare il loro Paese. Un’esperienza similare accade oggi nel Nord Italia. Mentre in passato c’era desiderio di approfondire queste tematiche per curiosità, solidarietà democratica o scientifica ecc., adesso la richiesta di capire cos’è la mafia e la sua antropo-psicologia, nasce dalle preoccupazioni nate dagli insediamenti assai pericolosi della mafie al Nord).

Il dilagare di film e serial quali Terapia e pallottoleI Soprano hanno fatto sì che di frequente, negli scorsi anni, mi venisse posto da colleghi, giornalisti, magistrati ecc., l’interrogativo: ma i mafiosi vanno in psicoterapia? Guardando i filmati americani, si pensa che sia così e, magari, che ci siano divertenti comiche. Tutt’altro. La mafia è tragica e mortifera e il riso e ogni forma di piacere sono in essa sconosciuti. Il nostro gruppo di ricerca, molto attento allo studio di questi fenomeni, non ha mai visto, né sentito dire, di un mafioso “in servizio attivo” in psicoterapia. L’ampia ricerca sulle mafie meridionali da noi realizzata contattando tutti gli psicoterapeuti di Campania, Calabria e Sicilia ha fatto emergere solo tre casi di mafiosi in psicoterapia (di cui, due di camorra). E non siamo riusciti a capire se fossero mafiosi in crisi o no. Il mafioso Doc, e cioè l’affiliato, viene da una famiglia di mafia ed ha un training mafioso che, in un certo senso, inizia molto prima della sua nascita. Egli non ha un’identità soggettiva. La sua psiche e quella di cosa nostra si sovrappongono totalmente. È una “non persona” (abbiamo parlato di robot, terminator, psiche fondamentalista) e, in quanto tale, non può vivere conflitti interiori che lo possano portare in psicoterapia. Inoltre, in questo mondo, la legge, e la cultura introiettata, dell’omertà è totale e totalizzante. C’è qualche caso di mafioso in difficoltà che ha preso farmaci, ma era anch’esso in crisi e sono situazioni poco chiare clinicamente.

I mafiosi con cui noi abbiamo parlato sono, soprattutto, i collaboranti di giustizia, cioè persone che hanno rotto con cosa nostra e vivono fortissimi e drammatici conflitti interiori. Questa esperienza ci ha mostrato come queste persone avrebbero bisogno di sostegno psicologico, se si vuole che resistano e non impazziscano, e di una terapia analitica espressiva se si vuole aiutare un processo trasformativo. Si potrebbe anche dare loro aiuto indirettamente, formando e accompagnando, per esempio, gli operatori delle forze dell’ordine che con loro lavorano quotidianamente e che sono, a loro volta, in forte difficoltà. Va sottolineato che una formazione in tal senso è stata spesso sollecitata dagli stessi appartenenti alle forze dell’ordine, ma non siamo ancora riusciti a realizzarla. I numerosi casi con cui abbiamo lavorato o che ho seguito come supervisore, riguardano, come già detto, figli/e, mogli, amanti, parenti di uomini d’onore; non persone organiche all’organizzazione. La psicopatologia è presente in questo mondo, la forma principale che essa assume è il “non esserci”; il non avere identità soggettiva, ma solo emozioni primitive e dilaganti: paura, odio, onnipotenza e potere. 

Va tenuto conto, come vedremo nei casi che andremo a narrare, che la cappa di piombo inglobante tutto e tutti, che è la mafia, lo è anche a livello psichico e inconscio. In psicoterapia ho direttamente seguito casi di persone in vario modo coinvolte dalla mafia o di famiglia mafiosa ma in conflitto interiore con esse. Spesso si trattava di persone che improvvisamente scoprivano, tramite arresti o giornali, che il padre, o un altro parente, era in qualche modo colluso con la mafia e passavano il resto della vita a chiedersi «ma mio padre chi è?». Riporto qui alcuni casi che possono dare un’idea del lavoro fatto. Premetto che solo in alcuni casi è stato possibile strutturare un set(ting) di terapia analitica e svolgere un lavoro completo e sistematico. Negli altri casi si è fatto un lavoro terapeutico utile per sopravvivere, ma parziale.

Pasquale proveniva da una famiglia mafiosa del centro Sicilia. Feci con lui un discreto lavoro durato abbastanza a lungo. Negli ultimi tempi della terapia lui si era inserito in un gruppo terapeutico e quando scoppiò il “Rubygate” si poneva ossessivamente un arrabbiato interrogativo (che già avevamo sentito dai collaboranti): «Ma perché noi (la famiglia mafiosa) paghiamo e loro (i potenti politici) no?». In realtà, portando questo caso in una covisione con esperti colleghi vennero fuori le grandi difficoltà sessuali di Pasquale e l’interrogativo, inizialmente scherzoso, sul perché lui si dichiarava simile a Berlusconi, esaltandosi e disperandosi. La cosa si estese sino alla domanda «ma che rapporto c’è tra la politica e la mafia?» (rapporto simbolico, in questo caso). Venivano fuori i temi, le emozioni e i gossip di cui tutta l’Italia parlava in quegli anni: mazzette, ragazzine, bugie, degrado, faccendieri, ruberie di ogni tipo ecc. Queste sono cose che attengono alla storia, e di cui abbiamo scarsa competenza professionale. Quello che ci compete è, invece, l’associazione alle problematiche psichiche. L’elaborazione del “caso” Pasquale ci aiutò a chiarirci le idee. Berlusconi e la mafia avevano in comune, nel vissuto di Pasquale, il super citato motto “cummanari è megghiu di futtiri”. Il mafioso Doc (noi conosciamo una sola eccezione nella famiglia di San Lorenzo) non conosce il piacere, non gusta il buon cibo, gli abiti, i lussi. Frequenta le mogli con veloci rapporti procreativi. Non conosce, insomma, l’eros, lo scambio relazionale, la condivisione e la complicità sessuale con le donne. Ha una profonda e angosciata omofobia. Lo stesso però sembrava a lui e agli altri membri del gruppo terapeutico (rara esperienza, quella di un membro di famiglia mafiosa in gruppo) Berlusconi (in realtà per lui metafora del potere) con i rapporti a pagamento con ragazze che tengono lontani i rapporti reali, ausili meccanici che illudono, ma celano l’angoscia da prestazione, la vecchiaia, il terrore della morte. In sostanza, anche qui, il gioco del potere che tiene lontano lo scambio relazionale, la reciprocità, la verità come cibo per la mente . Una forma di esaltazione narcisistica che cela enormi debolezze e un’illusione di dominio (su ragazze “dominate” con denaro e promesse di carriera) nella corte di seguaci adoranti, o “sciacqua palle”, come li chiamavano i pazienti e prima di loro i pescatori riferendosi agli ammiccanti procacciatori di piacere per il capo-padrone (figura da sempre presente nella storia). Nell’Horcinus Horca di D’Arrigo era il maltese che procurava bei ragazzi all’ammiraglio inglese. Anche qui, sembra esserci più che altro tristezza e angoscia di vecchiaia e di morte. Il parallelo con la psicologia mafiosa, anche per la presenza di Pasquale, tornava in continuazione nel gruppo. Segnalo qui soprattutto, però, il fatto che spesso le tematiche socio-culturali e l’attualità risuonano fortemente in psicoterapia, ancor di più se di gruppo. Se poi si parla di mafia, va detto che il campo psichico è spesso riempito dalle tematiche antropo-sociali, giornalistiche ecc., e che con questo il clinico deve fare i conti al fine di procedere professionalmente nel lavoro di cura. Per esempio, a Palermo, nei gruppi che si tengono nei giorni dell’anniversario della morte di Falcone, ciò risuona fortemente.

Salvino, un uomo di una quarantina d’anni, era una persona con disturbi psichiatrici ben contenuti. Molto mite, ansioso, spaventato della sua malattia e degli auto-danneggiamenti a essa legati. Aveva perso e ritrovato (era di buona volontà) più volte il lavoro. Viveva in un grosso paese della provincia e la mafia, con cui aveva antropologicamente convissuto da sempre, era entrata nella sua vita in una maniera un po’ paradossale. Doveva, infatti, vendere la piccola azienda di famiglia, ma essendo lui confuso, lo zio molto anziano (il padre era morto) aveva preso in mano la cosa. Ciò, da un lato, lo faceva sentire umiliato, dall’altro lo spaventava. Lui, infatti, avrebbe voluto dare tutto gratis ai potenziali acquirenti, pur di liberarsi dalla paura che loro, presunti mafiosi, gli facessero del male. Ovviamente, gli acquirenti se ne approfittarono, pur non avendo forse nulla a che fare con la mafia, cosa che pian piano emerse dai colloqui. Ma era un caso dove emergeva chiaramente il ruolo oniroide e simbolico della mafia in Sicilia. Questo caso mi ha fatto venire alla mente quello di molti anni fa, quando non avevo iniziato questi studi, di un membro della forze dell’ordine. Inviatomi da mia madre che lo aveva visto piangere davanti al consolato dove era di guardia, era un ragazzone ossuto, alto e robusto. Aveva paura del sangue e delle armi e visto il mestiere che faceva ciò gli faceva temere per il suo posto di lavoro. In una seduta mi racconta questo paradosso. Di notte girando con la volante, vedono una saracinesca rotta. Guardano sotto le macchine lì intorno e lui vede un omino. Lo tira fuori con le sue manone. L’omino si agita e lui, innervosito, lo colpisce alla testa con il calcio della pistola. L’omino urlava “appena arrivo in caserma lo dico al maresciallo e ti rovino!”. Il mio paziente poliziotto gli urla, a sua volta: “Allora si sbirro”. Il paradosso trova perfetta congruenza nella risposta dell’omino che gli dice: “Hai ragione”. Il poliziotto, allora, gli asciuga il sangue e gli compra le sigarette. La paradossale sintesi culturale si chiude. Entrambi palermitani, condividevano lo stesso sistema di valori. Sono passati trent’anni. Io spero, e credo anche, che le cose si siano evolute.

Guido apparteneva a un’onesta e normale famiglia di lavoratori che però riforniva alcuni grossi ristoranti gestiti dalla mafia o da persone che, comunque, avevano rapporti con essa. Era in imbarazzo poiché in famiglia “si giravano dall’altra parte”, non volevano sapere da dove veniva il denaro che ricevevano per poter continuare a lavorare. Lui, invece, voleva schierarsi con l’antimafia, e via via lo fece. Questo si inseriva nel suo problema di accettare di essere come i familiari o essere diverso da loro pur avendo molti e buoni legami con essi. La logica familiare era “qui si fa così perché è normale” ed è immotivato porsi problemi, ma a lui questo sembrava avallare le prepotenze. Forte era in lui il dibattito interno con le tematiche che attraversavano il suo rapporto con la famiglia. In realtà, la famiglia era dentro un contesto economico più o meno inquinato, cosa però non accettabile per lui, per i suoi ideali anti-mafiosi, anche se nel suo mondo ciò sembrava “normale”. È del resto diffusa nelle regioni ad alta presenza mafiosa l’esperienza di persone che hanno avuto parenti, conoscenti ecc., che avevano avuto contatti con la mafia nei modi più vari. Ciò emerge nelle terapie di gruppo e nella ricerca, sistematicamente.

Pietro era un uomo di quarant’anni, sposato e con figli, ma donnaiolo accanito, addetto alla sicurezza e buttafuori di una grande discoteca. Era stato scelto, insieme ai suoi uomini, per il suo passato violento. Era stato più volte arrestato per rissa, ma oggi era un uomo “d’ordine”. Via via il vissuto ansioso legato alla sua aggressività era emerso e lo aveva portato ad avere paura di tutto e, soprattutto, della mafia e della polizia. I boss del quartiere, infatti, entravano gratis, portavano altra gente, si sedevano nel migliore tavolino, e così via. Lui avrebbe dovuto buttarli fuori ma la paura era grande e stava tutto il giorno a ossessionarsi per i timori, la rabbia e la paura del licenziamento. Nel contempo, aveva anche paura di essere arrestato per favoritismo (i mafiosi non pagavano). In gioventù si era sentito oppresso dai mafiosi del suo quartiere ma anche, in alcune occasioni, aiutato. Parlava dell’incubo di questa presenza pervasiva e diffusa che tutto controllava, in primo luogo le elezioni, nelle quali era come se il rione venisse “chiuso” e i voti controllati uno per uno, e di come questo si collegasse al clientelismo di alcuni “politici” collusi. Costoro “idealmente” si collegavano a “politici” pluricondannati ma sempre potenti, attivi e presenti in Parlamento e che, addirittura, rilasciavano interviste vantando l’onore dell’Italia leso da chi scriveva di mafia (secondo l’allora presidente del consiglio, bisognava strozzare quelli che scrivevano di mafia poiché danneggiavano l’immagine dell’Italia (Ravveduto, 2010). Fortissima era in Pietro l’ambivalenza, inizialmente inconscia, tra l’orrore per la mafia e la violenza e la rabbia per i poliziotti che lo avevano in gioventù maltrattato. La sua rabbia per la politica corrotta era grande.
Aveva sviluppato una fortissima sindrome ansiosa e passava la vita cercando rassicurazioni sia rispetto alla mafia che rispetto alle forze dell’ordine. Aveva convissuto con depressioni e grandi affetti. Ma anche con esaltazioni narcisistiche rispetto al femminile “riparativo” e gratificante. Aveva avuto rapporti con donne belle e importanti, e questo lo aiutava a sopravvivere, ma per lui era terrificante poter avere una reale situazione relazionale e paritaria con una donna. Ci riuscì dopo anni di terapia. Era terrorizzato dall’idea di potersi fidare di qualcuno che non fosse un animale o un bimbo. Era, insomma, la personificazione di quella realtà paranoide che è (o induce) la cultura mafiosa. Interessante il fatto che fosse consapevole di vivere in una realtà antropologicamente bloccata. Quando un mafioso chiede qualcosa, magari piccola, come si può dire di no, visto che hai una grande, a volte motivata, paura? Cadeva, quindi, come molti in Sicilia, per esempio, avvocati, politici, medici ecc., nella collusione e mandava, per timore, messaggi di rispetto che conferivano ai mafiosi il loro potere e a lui il conflittuale legame sottomesso.
Un altro caso paranoicale fu quello di un graduato dei Carabinieri che, per problematiche sue, aveva elaborato un’incredibile angoscia per l’idea che la mafia lo potesse uccidere. Lui svolgeva un lavoro di routine nel quale la mafia non c’entrava ma l’angoscia era tale che arrivò a mandare lo zio, che aveva conoscenze, a informarsi dai mafiosi del quartiere per sapere se ce l’avevano con lui. La risposta negativa, l’elemento di realtà, non cambiarono nulla.

Girolamo Lo Verso, professore ordinario di Psicologia clinica presso l’Università di Palermo, gruppo-analista, sul tema della mafia ha già pubblicato presso FrancoAngeli: La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, 2002 (2a ed.); con Gianluca Lo Coco, La psiche mafiosa. Storie di casi clinici e collaboratori di giustizia, 2002; con Gianluca Lo Coco, Saverio Mistretta, Graziella Zizzo, Come cambia la mafia. Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche in un paese che cambia, 1999.

La mafia in psicoterapia, FrancoAngeli, 160 pagine, 21 euro (con una prefazione di Roberto Scarpinato)

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