ODA, Giappone – Il Giappone è sempre più vicino alle tigri del Sudest asiatico. La scorsa settimana, l’associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean) più Giappone, Cina e Corea del Sud, il cosiddetto Asean + 3, si sono accordate a Nuova Delhi, a latere del vertice annuale dell’Asian development bank, per migliorare la cooperazione finanziaria tra Nord e Sud dell’area estremo-orientale.
Un accordo importante per l’economia della regione: l’Asean + 3 Macroeconomic Research Office (Amro), il principale corpo di sorveglianza economico-finanziaria della regione, è però un accordo dimezzato, perché solo il ministro dell’Economia e vice-premier di Tokyo, Aso Taro, era presente. Pechino e Seul hanno preferito invece inviare in India i vice ministri.«Dispiaciuto» ma impegnato in «affari interni», si è detto il ministro delle Finanze sudcoreano Hyun Oh Seok. Stessa scusa per Lou Jiwei, ministro delle Finanze di Pechino. Secondo un funzionario giapponese tuttavia, sarebbe stato il clima teso tra le tre grandi potenze del Nordest asiatico ad aver impedito l’incontro. Da una parte, la contesa tra Cina e Giappone sulle isole Senkaku o Diaoyu e la contesa tra Corea del Sud e Giappone sull’isolotto di Takeshima o Dokdo; dall’altra le ripetute visite di funzionari e ministri del governo di Tokyo al santuario Yasukuni, dove sono onorati i caduti di guerra giapponesi – tra cui alcuni criminali di guerra. Cina e Corea del Sud guardano con sempre maggiore sospetto.
È la prima volta in poco più di un decennio che Tokyo, Seul e Pechino non siedono allo stesso tavolo in occasione della riunione del principale organismo finanziario asiatico. Negli ultimi 13 anni, infatti, le tre potenze asiatiche si sono sempre incontrate per discutere dei temi di più stretta importanza. Sabato scorso, Aso ha rincarato la dose. «Cina e Giappone non hanno mai intrattenuto relazioni pacifiche», ha affermato provocatoriamente il ministro.
L’Adb, ha invitato alla cautela, dopo che alcuni analisti finanziari notano che Cina e Giappone rivestono ancora un ruolo fondamentale per i colossi industriali giapponesi. «Gli scambi rabbiosi di dichiarazioni (tra Cina e Giappone ndr) – si legge nel rapporto annuale dell’Adb – sono culminati in un boicottaggio di beni giapponesi, causando una forte caduta del commercio e arrestando gli investimenti giapponesi nell’area, in una nuvola di incertezza».
Nonostante i «rischi sul lungo periodo», evidenziati dall’ente presieduto dall’ex funzionario del ministero delle Finanze Nakao Takehiko, il Giappone avrebbe già studiato una exit strategy: i paesi del Sudest asiatico. «L’Asean è la regione a cui il Giappone deve dare impotanza assoluta in futuro», ha dichiarato Aso durante il summit. Già all’indomani della tripla catastrofe del Nordest del Giappone, l’Asean era stata individuata come area cruciale per favorire la ripresa economica del Sol Levante.
Il rapporto economico-finanziario tra Giappone e paesi del Sudest asiatico è da molti anni ottimo. Qui, dal secondo dopoguerra in avanti, il Giappone ha versato miliardi di dollari in aiuti pubblici allo sviluppo (Aps). Aiuti che comunque hanno aiutato a “purgare” il peccato originale della storia giapponese del secolo scorso: il tentativo di costruire un impero asiatico.
Inizialmente pensati, infatti, come riparazioni per l’aggressione militare degli anni 30-40, i «crediti di aiuto» giapponesi hanno attivamente contribuito a «migliorare l’ambiente per il business nell’area», scrive il Libro bianco del ministero degli Esteri, «prerequisito per installare operazioni estere da parte delle aziende giapponesi, attraverso prestiti in yen».
Nell’area Asean poi, «Il Giappone utilizzerà la propria tecnologia infrastrutturale nei progetti finanziati dagli Aps», si legge ancora nel Libro bianco, anche per favorire la ripresa economica interna. Insomma, l’Asean sarà sempre più un polo prioritario per gli investimenti pubblici e privati provenienti dal Sol Levante.
Gli Aps giapponesi sono però sotto accusa. Sarebbero uno strumento di profitto, invece che un sostegno allo sviluppo economico dei paesi meno ricchi. È la stessa Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) a dirlo. E oggi si valuta la possibilità di mettere mano alle politiche di sostegno alla crescita dei paesi in via di sviluppo. Tempo di crisi, tempo di riaggiustamenti e riassetti.
Al centro dell’attenzione degli esperti sono finiti appunto gli Aps, Oda in inglese (official development assistance): il loro valore sarebbe da alcuni anni “gonfiato” da parte dei paesi donatori di diversi miliardi di dollari. Negli Aps vengono inseriti prestiti, solitamente legati a progetti, su cui maturano interessi a tasso pari o superiori a quelli di mercato. Sul banco degli imputati sono finiti insieme al Giappone altri maggiori donatori: Germania e Francia.
Una generosità a interesse che non compare nei dati ufficiali diffusi dalle autorità nazionali. È un rapporto di Development initiatives a confermarlo: «gli Aps al lordo, come misura, oltrepasserà il vero valore dei prestiti Aps visti dalla prospettiva dei paesi riceventi». «Il modo in cui vengon misurati gli Aps netti – continua il rapporto di Di – fornisce un’immagine scorretta del vero valore dei prestiti Aps ai riceventi. La misura (…) non tiene in conto il pagamento degli interessi».
Una sorta di brand-washing a livello statale: un velo di generosità che alcuni paesi Ocse adottano per celare profitti miliardari. Mentre i paesi più “sfortunati” del Terzo mondo arrancano. È ancora il rapporto di Di a fornire dati eloquenti. Come si legge nella seconda sezione del rapporto, «la valutazione dei prestiti Aps potrebbe non riflettere il loro vero valore». Infatti, «il valore netto al ricevente è gonfiato di circa 5 miliardi di dollari l’anno».
Uno squilibrio che non può proseguire. Come ha di recente scritto Richard Manning, presidente del Comitato per l’Aiuto allo sviluppo dell’Ocse (Dac) dal 2003 al 2008, in una lettera al quotidiano economico britannico Financial times, «L’Ocse sta permettendo che grandi volumi di prestiti siano considerati Aps anche se non incontrano nessuna definizione ragionevole di concessionalità, che è la base della definizione di aiuto dell’Ocse».
Occorre dunque ridefinire il concetto di Aps. Secondo la definizione del 1969 stilata dal Comitato per l’Aiuto allo sviluppo dell’Ocse (Dac), che oggi riunisce 25 paesi donatori, gli Aps sono «flussi di fondi finanziari ufficiali gestiti con l’obiettivo primario di promozione dello sviluppo economico e del welfare nei paesi in via di sviluppo, che abbiano carattere concessionale con un elemento di gratuità almeno del 25 per cento e un tasso di sconto fisso al 10 per cento».
Le regole Ocse, questa la vera accusa, lasciano troppo spazio a pratiche diverse da paese a paese. Nella maggior parte dei casi i paesi membri dell’organizzazione si comportano in modo virtuoso. Tuttavia sulle percentuali di gratuità e sui prestiti veri e propri contenuti negli Aps, c’è ancora troppa discrezionalità.
I numeri forniti dall’Ocse rivelano infatti alcuni squilibri sui “crediti di aiuto” di alcuni suoi membri eccellenti. Nel quinquennio 2007-2011, considerando gli interessi, Francia e Germania hanno ricevuto pagamenti per circa 2 miliardi di dollari ciascuna, il Giappone per circa 12 miliardi di dollari, più del totale degli aiuti che il Sol Levante distribuisce in un solo anno. Nel 2011, ad esempio, il totale degli aiuti giapponesi ai paesi in via di sviluppo, pur in calo rispetto al passato, ha di poco superato gli 11 miliardi di dollari, ricevendo oltre 2,6 miliardi di dollari in rimborsi.
«Il problema nasce dal metro che l’Ocse usa per misurare la concessionalità – elemento gratuito del 25 per cento tasso di sconto al 10», scriveva ancora Manning. «In un’era di tassi di interesse bassi ciò può essere raggiunto con prestiti fatti senza alcun sussidio pubblico», ovvero senza che i contribuenti, già schiacciati dal peso della crisi globale e dalle politiche di austerità, debbano pagare. I dati ufficiali dimostrano infatti che nel 2011 alcuni paesi hanno prestato miliardi di dollari a tassi d’interesse di molto superiori ai costi di prestito.
Per questo l’Ocse ora «deve mettere in atto una definizione di concessionalità che rifletta il reale costo del capitale». E forse mettere in dubbio la stessa sostanza degli Aps, che invece di favorire chi riceve, favorisce chi dà.