Torre Veneri, i veleni del poligono in mare fanno paura

Il video dei fondali della zona militare

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Oltre cinquant’anni di esercitazioni militari e sembra che non sia mai stata fatta una bonifica. Questo racconta il mare di fronte a Torre Veneri, importante poligono a due passi da Frigole, in provincia di Lecce. Nelle acque antistanti la zona militare della Scuola di cavalleria “Caserma Floriani” giacciono infiniti scarti dei giochi di guerra italiani e non solo.

A passeggiare nel poligono – come fanno molti che abitano a due passi da lì – se non fosse per qualche segnale di “alt” e le orme di carri armati. Man mano che ci si avvicina alla spiaggia la presenza militare si avverte sempre di più. Accanto alle paludi frequentate da specie animali protette, scarti di ogni tipo che arrivano dal mare o residui delle esercitazioni. Nei terrapieni a ridosso della spiaggia si ritrovano conficcati numerosi bossoli. Le piccole dune che separano dal mare sono in realtà cumuli di sabbia e rifiuti.

È soprattutto il fondale a raccontare una storia finora sconosciuta: proiettili, ogive, perforatori, sabot, bossolame vario. Nel video si mostra per la prima volta ciò che quel tratto di mare nasconde. In alcuni casi i residui si distinguono appena, mimetizzati tra le alghe e la vegetazione in una sorta di trasformazione marina.

Torre Veneri è uno dei pochi poligoni italiani dove le nostre forze armate, la Nato e i militari provenienti da diversi paesi – tra cui Stati Uniti, Francia, Spagna – si esercitano, testano le armi e simulano situazioni di combattimento. Non è raro poi che i poligoni, o parti di essi, vengano affittati a privati per testare le armi. Tra le munizioni utilizzate moltissimi missili anticarro, quelli che nelle reali situazioni di conflitto necessitano di metalli pesanti.

Il più grande è il poligono sperimentale di addestramento interforze di Salto di Quirra, in Sardegna, al centro di un processo a carico di venti persone, con diversi capi d’accusa fra cui aOmissioni dolose, favoreggiamento, falso ideologico in atto pubblico e ostacolo aggravato alla difesa del disastro ambientale. Sarebbe stato accertato da parte dell’Asl un aumento esponenziale dell’inquinamento ambientale da nanoparticelle e metalli pesanti e un incremento di patologie oncologiche in pastori e allevatori che lavoravano in prossimità del poligono.

L’eco della vicenda sarda è arrivata fino a Lecce, dove le scoperte a Salto di Quirra hanno fatto scattare il campanello d’allarme. In particolare, l’associazione Lecce Bene Comune ha sollecitato all’amministrazione comunale una serie di azioni per chiarire le eventuali ripercussioni sull’ambiente e sulla salute pubblica di Torre Veneri. Il poligono sorge infatti nel bel mezzo di un’area Sic (Sito di importanza comunitaria) tra due aree protette – il parco del Rauccio e la riserva naturale delle Cesine – con abitazioni, campeggi, lidi balneari a pochissime centinaia di metri. Su iniziativa di Lecce Bene Comune, il prossimo 11 maggio sarà presentato nel capoluogo salentino “cielo_duetreotto”, il documentario girato da Corrado Punzi che racconta la vicenda di Torre Veneri e che contiene anche le immagini subacquee del mare antistante il poligono.

«Tutto è iniziato più di un anno fa. Sapevo che la prima Commissione d’inchiesta era andata a Torre Veneri nel 2007, sembra accontentandosi delle rassicurazioni del comandante, il generale Carmelo Cutropia», racconta Gabriele Molendini di Lecce Bene Comune. «Ho cominciato a interessarmi della questione e a studiare anche alla luce di quel che succedeva in Sardegna». Mentre Molendini fa le sue ricerche, a marzo 2012 la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito visita il poligono leccese con il capitano Paride Minervini. Alle domande della Commissione sulle bonifiche i vertici militari rispondono che è tutto regolare. Ma intanto il capitano Minervini si guarda intorno, fa rilievi, scatta fotografie. Vi sono vari residui delle esercitazioni ammonticchiati in diversi punti. E alla domanda relativa all’effettiva realizzazione di bonifiche in mare da parte del perito, la risposta dei militari sarebbe stata negativa.

A maggio, mentre Molendini presenta il primo esposto alla Procura di Lecce, il presidente della Commissione Giorgio Costa decide di rimandare il capitano Minervini a Torre Veneri per ulteriori accertamenti, anche in mare. Il perito deve riferire sulle nuove repertazioni in Commissione durante la seduta del 24 luglio, ma gli esiti di quella riunione vengono secretati. Minervini si giustifica dicendo che si è scelto di secretare la seduta «perché non si avevano tutti gli elementi a disposizione e non si voleva generare allarmismo».

Già a ottobre del 2012 il presidente della Commissione ammette che «si sono accumulati residuati delle attività di esercitazione, che richiedono presumibilmente importanti interventi di bonifica, finora evidentemente non attuati». È emersa «una scarsa osservanza del disciplinare per la tutela ambientale e la bonifica», e il personale addetto al controllo delle bonifiche «non risulta adeguatamente qualificato». Ancora, «è stata rinvenuta sul terreno una notevole quantità di materiale inerte affiorante» e nell’area marina «vi sono numerosi relitti inerti, di proiettili da esercitazione, di un barcone metallico e di penetratori in materiale attualmente in fase di identificazione». Durante la seduta di novembre scorso della Commissione, Minervini spiega che non ci si può sbilanciare sulle munizioni trovate a Torre Veneri perché «mancano le schede tecniche, richieste al ministero della Difesa, che stiamo ancora aspettando».

Intanto, agli inizi di dicembre, il sostituto procuratore di Lecce Elsa Valeria Mignone avvia un’indagine contro ignoti per gestione illecita dei rifiuti nel poligono. Una svolta arriva il 9 gennaio 2013: la Commissione parlamentare d’inchiesta pubblica la sua relazione definitiva, nella quale si esclude la presenza di uranio impoverito a Torre Veneri ma non si fa cenno ad altri metalli pesanti. Si precisa peraltro che quelle schede tecniche richieste al Ministero per accertare quali munizioni siano state rinvenute nel poligono salentino non sono mai più arrivate. Nella relazione si istituisce un possibile collegamento tra i proiettili presenti a Torre Veneri, i missili perforanti al tungsteno e, soprattutto, un lotto di proiettili israeliani acquistati a metà anni Ottanta dall’Italia: «Non è stato possibile approfondire questo profilo – si legge – anche per la mancata acquisizione delle schede tecniche e storiografiche dei colpi completi da 105×617 mod. APFSDS-T DM 33 e da 105/51 lotto IMI 1-1-1985 acquistato presso la ditta IMI (Israel), richieste agli uffici del Ministero della difesa, ma non pervenute».

È questo particolare a far saltar dalla sedia l’ammiraglio Falco Accame, presidente dell’Anavafaf (Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate e famiglie dei caduti) ed ex-senatore del Psi, componente sia della Commissione Difesa che della Commissione parlamentare d’inchiesta e di studio sulle commesse di armi e mezzi ad uso militare e sugli approvvigionamenti. Su quel lotto l’ammiraglio si è pronunciato più volte, ipotizzando che si possa trattare di proiettili all’uranio impoverito. Il Ministero ha sempre negato. «Non era necessario in nessun modo – spiega Accame – chiedere armi a Israele, un Paese su cui peraltro all’epoca pendeva l’embargo. Quelle armi già le produciamo noi. Tanto più che sono state fabbricate dalla Germania, che ha un primato tecnologico in fatto di uranio impoverito. Ci sono forti sospetti che già nei primi anni Ottanta Israele usasse quel tipo di armi, fin dalla prima guerra del Libano».

Usati nell’operazione Restore Hope in Somalia, i proiettili avanzati sarebbero poi stati riportati indietro per essere ricondizionati, stoccati e sistemati in un deposito militare in centro Italia. In un articolo de «Il Tempo» del 2001, gli artificieri di stanza al deposito di Bibbona riferivano infatti esplicitamente di quelle munizioni come di armi all’uranio impoverito, come riportato anche dall’interrogazione parlamentare dell’allora parlamentare dei Verdi Paolo Cento.


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Non solo: nel 2009 a Torre Veneri viene testato il nuovo blindato Freccia, che affiancherà il Lince nella missione in Afghanistan. Un mezzo che dovrà resistere nelle prove ad attacchi effettuati con armi efficaci. Per poter penetrare questi mezzi, infatti, servono proiettili in grado di raggiungere temperature elevatissime, anche tremila gradi. Rispondono a queste caratteristiche munizioni che contengono metalli pesanti come il tungsteno o l’uranio impoverito. Il potenziale pericolo di quei proiettili deriva dal fatto che, a quelle temperature, dai metalli pesanti si sprigionano nanoparticelle che possono ricadere nel terreno, contaminandolo, o addirittura entrare nell’organismo di chi maneggia quelle armi senza adeguate protezioni.

L’esercito italiano ha più volte confermato di non aver mai utilizzato uranio impoverito. Lo ha ribadito il generale Massimo De Maggio, comandante per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell’Esercito, durante il Consiglio comunale monotematico del 7 marzo scorso, nel quale i rappresentanti delle forze armate hanno risposto alle domande dei consiglieri sul poligono di Torre Veneri.

Quel che resta è un’emergenza ambientale riconosciuta ufficialmente dalla stessa Commissione parlamentare. Resta anche la paura di altre contaminazioni, come quella da metalli pesanti: il tungsteno o il piombo, per esempio. I vertici militari assicurano che quelli usati nei poligoni sono proiettili d’addestramento a carica ridotta. Il dubbio però rimane, tanto più che a oggi diversi residui trovati a Torre Veneri sono rimasti non identificati. Dubbi che potrebbero essere fugati dagli esiti delle indagini della Procura.

«La contaminazione ambientale da metalli pesanti» dicono Ernesto Mola e Sergio Della Giorgia, due medici di base di Frigole vicini alla popolazione locale e attivi su questo fronte, «può essere molto pericolosa perché può entrare nel ciclo alimentare, oltre che nella falda acquifera. Noi non possiamo dire che vi sia una contaminazione da metalli pesanti, ma non possiamo neanche escluderlo. Per questo è importante fare tutti i rilievi necessari e accertare che non vi siano rischi per la popolazione, specie in un’area come questa in cui le falde acquifere sono superficiali e vi è attività agricola, soprattutto greggi che pascolano nella zona».

Ad aprile di quest’anno il Comune di Lecce, su iniziativa del consigliere comunale di Lecce Bene Comune Carlo Salvemini, ha affidato al servizio veterinario della Asl un piano di campionamento dell’area di Torre Veneri, sia sulle specie marine sia su quelle terrestri. Analisi complementari agli accertamenti svolti dall’Arpa Puglia nel 2007 e nel 2010, su cui la Commissione parlamentare d’inchiesta si è basata per escludere la presenza di uranio impoverito nel poligono di Torre Veneri.

«Se lei» dice l’ammiraglio Accame sui rilievi dell’Arpa «mette un’aspirina sulla bilancia dove si pesano le vacche al macello, è molto probabile che la bilancia non la rilevi. C’è bisogno di una bilancia da farmacista. In Italia sono spesso mancate le bilance da farmacista». In buona sostanza: per fare i suoi accertamenti l’agenzia per la protezione ambientale potrebbe aver usato strumenti inadeguati. «Per rilevare la non alta radioattività dell’uranio impoverito si devono usare strumenti sofisticati come il Rotem israeliano, o l’AN/PDR77, americano. Invece per anni si è usato l’intensimetro RA141B, che serve per l’uranio arricchito. Tant’è vero che, ad esempio, in Bosnia non ci siamo accorti di nulla e sono stati gli americani ad avvisarci che erano stati sparati oltre diecimila proiettili all’uranio impoverito».

Ma spesso i proiettili conficcati sottoterra non vengono rilevati neanche da questi strumenti. «È necessario fare una bonifica in profondità: scavare con le ruspe almeno fino a cinque metri, tirare fuori le montagne di terreno, estrarre i proiettili, poi lavare la terra e mettere l’acqua in cassoni di acciaio inossidabile. Niente di tutto questo è stato mai fatto in cinquant’anni, da nessuna parte. Le bonifiche non servono soltanto per l’ambiente, sono necessarie per capire di che materiali si tratta».

Stesso discorso per le bonifiche in mare, che sono ancora più difficili e costose. Uno dei problemi è proprio il costo di queste operazioni. Per la bonifica di tutti i poligoni sono stati stanziati nel prossimo biennio 75 milioni di euro: Accame la definisce senza mezzi termini «una bischeraggine italica». Con quei soldi, spiega, «non si fanno nemmeno le reti di recinzione». Altra questione spinosa sono le misure di protezione usate dai militari che operano nei poligoni. «Per proteggersi servono tute adeguate – dice l’ammiraglio – maschere con filtri, occhialoni, sovrascarpe particolari».

Al telefono il maresciallo Giacomo Mancini, che ha lavorato come tecnico sui Leopard in diversi poligoni italiani e per 15 giorni anche a Torre Veneri a metà anni Novanta, dice: «le misure di protezione erano pari praticamente zero. Non posso dire che si sia usato uranio impoverito. Però sparavamo spesso missili anticarro. Finito di sparare si entrava nei carri per la manutenzione, con i fumi e gli odori di queste esplosioni. Quanto alle bonifiche, significava raccogliere qualche bossolo sparso qua e là e andar via, il prima possibile. Anche se sapevamo che si sparava del materiale delicato nessuno, neanche del personale medico, ci diceva di proteggerci. Tutto molto all’acqua di rose. Io ad esempio mi resi conto anni dopo dei danni dell’amianto e cominciai a lamentarmi. Allora si è mosso qualcosa, ma mi hanno anche “invitato” a stare zitto».

Giacomo Mancini ha contratto una «sindrome tumorale dell’adenoma ipofisario GH secernente ed altre gravi patologie». Dopo l’approvazione della legge finanziaria del 2008, con cui si è riconosciuta la pericolosità dei metalli pesanti e dell’uranio impoverito e si sono previsti eventuali risarcimenti, ha deciso di presentare domanda, come molti altri. Ma su 250 richieste ne sono state accolte meno di venti. «Siamo entrati a contatto con le nanoparticelle di metalli pesanti, eppure ci hanno trattato come impiegati del catasto». Come racconta Mancini, «quel che succedeva negli altri poligoni succedeva anche a Torre Veneri: si facevano le esercitazioni con gli americani, si bombardava, si faceva finta di fare la guerra».

Le esercitazioni con forze straniere sollevano un altro interrogativo. Chi garantisce per i materiali usati dagli altri eserciti? «Agli stranieri, sia militari sia privati, basta un’autocertificazione», spiega l’ammiraglio Falco Accame. «E sono loro a fare da soli la bonifica. Non c’è la possibilità di verificare né eventualmente di sanzionare perché non esiste un bando internazionale. Non c’è nessun tipo di caveat». È una semplice negligenza o cosa? «Lascio a voi il giudizio. Sono convinto però che in tutti i poligoni dove operano stranieri, militari e privati, sia necessario un bando internazionale».

Il maresciallo Domenico Leggiero è un esperto balistico e responsabile dell’Osservatorio Militare Comparto Difesa. «A oggi, non c’è un controllo efficace su ciò che si sperimenta all’interno dei poligoni. Tra l’altro si testano non solo armi ma anche altri tipi di prodotti: ad esempio, tubature per gas o petrolio. A Salto di Quirra si è riusciti a correggere questa situazione, a Torre Veneri no. Da una parte per mancanza di volontà politica, e dall’altra per riservare un’area con più ampio margine di manovra e continuare così a fare sperimentazione. E se in Sardegna il tratto di mare è isolato, a Torre Veneri in quelle acque si pesca tranquillamente. In fondo, quanta differenza può esserci tra l’uranio impoverito e tutto quel piombo che si butta in mare?»

Nonostante le rassicurazioni delle forze armate, ad oggi non è dato sapere di cosa siano fatti i residui presenti a terra e in mare a Torre Veneri. A sentire i pescatori che lavorano in queste zone, di sicuro c’è però l’impatto ambientale, anche se non saprebbero dire se sia colpa del poligono o se dipenda da altri fattori. Raccontano di mine cariche di tritolo depositate sul fondo, di ogive trovate fino a 60-62 metri di profondità, cioè fino a quattro chilometri dalla spiaggia, e di proiettili molto più grossi dei 105 millimetri usati di solito dagli italiani. Raccontano di missili che capitano nelle reti, e che vengono tenuti come zavorra nelle barche.

«Prima andavo verso Torre Veneri e facevo strage di pesci» racconta un pescatore «adesso capita di fare la pescata buona, ma non con la stessa frequenza». Poi, i ricci: «Chissà perché, ma quelli di questa zona sono amari. Noi non li mangiamo. Ogni giorno vado fino a Otranto per pescare i ricci. Il riccio è un brucatore, e può darsi che si scelga un’alga che si è sviluppata con le casse d’acqua scaricate dalle navi, oppure una che si è sviluppata con qualcosa che la rende amara. Prima questo sapore amaro lo sentivi solo nella zona militare, ora si è esteso sempre più, fino a Torre Chianca». Anche altri animali stanno scomparendo: «Prima nelle ogive appoggiate ai fondali spesso ci facevano la tana i polpi, ora non più. Prendevamo tantissime conchiglie di Ciprea, adesso non se ne trovano. Così pure le stelle marine, sparite. Tra l’altro, la zona militare dovrebbe essere la più popolosa, visto che è la meno battuta, invece non è così».  

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