Ultimo tango Rcs, gli interessi di banche e soci forti

La disfida di via Solferino e gli “amorevoli” dubbi di Cesare Geronzi

Alla vigilia del patto di sindacato Rcs e a pochi giorni dall’assemblea, si rincorrono le dichiarazioni tranqullizzanti, ma non è ancora del tutto certo se ci sarà l’aumento di capitale, conditio sine qua non per il salvataggio attraverso le banche (Intesa, Ubi, Unicredit e altri apporti minori). E crescono i dubbi anche tra chi conosce bene la situazione per essere stato a lungo in plancia di comando, per esempio Cesare Geronzi. L’ex presidente di Capitalia, Mediobanca e Generali, si astiene dal prendere posizione, ma spiega agli amici che quando una impresa è con l’acqua alla gola, la via maestra è 1) rinegoziare il debito allungandolo a dieci anni con interessi più bassi, 2) aumentare il capitale per sostenere gli investimenti, 3) tagliare i rami secchi. Da manuale. Semplice e in genere funziona.

Nel caso Rcs, invece, l’aumento di capitale di 400 milioni ne destina quasi metà al rimborso dei prestiti alle banche, azioniste e creditrici, sottraendo risorse agli investimenti e mostrando una sostanziale sfiducia sul futuro dell’azienda. Il prezzo, inoltre, è tale da tagliar fuori gli azionisti sgraditi. Non solo, gli interessi sul prestito futuro sono troppo elevati. Alla fine della fiera, Mediobanca, Fiat e Intesa sarebbero la trojka vincente. Rcs, però, resterebbe gravata di debiti, con un azionariato ancora incerto e confuso, in cerca di soci industriali forti.

Ma le banche non hanno ragione a cautelarsi? Certo, però il modo migliore sarebbe trasformare i crediti in azioni come sostiene Alessandro Penati, o emettere un prestito convertendo, come fecero dieci anni fa con la Fiat. Cosa c’entrano le banche con i giornali? Nulla, ma nell’Italia bancocentrica sono dappertutto e comunque sarebbe una operazione temporanea.

Forti dubbi solleva anche il piano industriale che non attacca le principali fonti di perdita, a cominciare dall’investimento spagnolo. Banche e azionisti hanno sostenuto l’operazione Recoletos che è la fonte principale degli 840 milioni di debiti Rcs. Ma non per questo bisogna perseverare nell’errore. Vuoi vedere che Diego Della Valle non ha tutti i torti? E Geronzi dovrà ammetterlo, anche se non ama mr.Tod’s. L’industriale marchigiano è stato protagonista della sua defenestrazione dalle Generali e poi lo ha chiamato «arzillo vecchietto» (in coppia per la verità con Giovanni Bazoli). Tuttavia la sua opposizione al piano per Rcs ha argomenti solidi.

Sbagli e abbagli, sia pur meno gravi, abbondano negli ultimi anni. Racconta una fonte ben informata che era pronta una fusione nei libri con Feltrinelli, ma gli azionisti non vollero perchè «è un editore comunista». Due anni fa c’era in ballo un accordo nei periodici con Vittorio Farina, lo stampatore della Repubblica e del Fatto, ma venne ritenuto imbarazzante perchè è datore di lavoro di Bisignani. Si era parlato di Springer, ma l’uomo che avrebbe dovuto condurre in porto l’operazione, Giuseppe Vita, presidente di Unicredit e del consiglio di sorveglianza della Axel Springer, si è dimesso dal consiglio Rcs per incompatibilità. Non solo, lo stesso piano preparato da Pietro Scott Jovane è stato ridimensionato. Partito con il taglio di 110 giornalisti su 350, è sceso a 65 uscite semivolontarie dopo la sollevazione del comitato di redazione. L’amministratore delegato voleva vendere la sede storica di via Solferino e spostare il Corriere della Sera nel nuovo palazzone di via Rizzoli progettato da Stefano Boeri, poi ha fatto marcia indietro di fronte alla protesta dei giornalisti e alle perplessità di Bazoli, presidente di Intesa Sanpaolo e tutore del Corriere da quando lo salvò nel 1983. 

E’ chiaro che si combattono interessi contrapposti. Secondo le banche e la Fiat, gli azionisti più piccoli vogliono portare i libri in tribunale perché così non pagano gran parte del debito contratto e poi si comprano il Corriere con una manciata di spiccioli. Gli oppositori, guidati da Della Valle, attaccano: le banche con l’aumento di capitale si ripagano del debito, diluiscono o eliminano i piccoli azionisti, aumentano il credito verso Rcs e prendono il controllo del Corriere. La Fiat corona l’operazione infilando in Rcs il suo quotidiano decotto, La Stampa, aumenta il suo peso sul Corriere e si alleggerisce di un peso.

Ciascuno, naturalmente, persegue il proprio tornaconto. In altre fasi critiche, si mossero le massime istituzioni (a cominciare dal Quirinale) e i pezzi da 90 del capitalismo italiano. Ma i tempi sono cambiati. Il Corriere è ancora il giornale più importante e influente anche in politica; la Repubblica si rivolge alla sinistra, il “quotidiano della borghesia” può muovere l’elettorato moderato che con le sue fluttuazioni determina gli esiti elettorali. Con la campagna sulla “casta”, ad esempio, ha aperto la strada a Beppe Grillo. Il governo Monti sembrava tagliato su misura come un abito di Caraceni, ma non ha funzionato. E il Corriere si ritrova solo anche perchè non è più il giornale di sistema agli occhi di una classe dirigente, economica e politica, che non ha cultura sistemica.
 

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