Aids, ultime notizie dal fronte della lotta anti Hiv

Salute&Scienza

In principio si chiamava Grid. Ovvero Gay-related immune deficiency (Immunodeficienza gay-correlata). Erano i primi anni Ottanta e l’unica cosa che avevano in comune il gruppo di pazienti affetti da sarcoma di Kaposi e polmonite da Pneumocystis carinii segnalati a Los Angeles, in California, era il loro orientamento sessuale. Quale fosse la causa di questa sindrome – poi ribattezzata Aids (sindrome da immunodeficienza acquisita) perché di fatto non riguardava solo i gay – e come agisse, era ancora un mistero.

Nel 1983 viene isolato il virus dell’immunodeficienza umana, Hiv, responsabile dell’infezione e della conseguente sindrome che di fatto indebolisce il sistema umanitario dell’individuo, rendendolo sensibile a patologie che normalmente non contrarrebbe. Oggi, trenta anni dopo la comparsa di questa malattia, alla domanda «si è fatto abbastanza per sconfiggere l’Aids» la risposta è «Nì». Così risponde a Linkiesta Marina Lusic ricercatrice del Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologie (Icgeb) nell’Area Science Park di Trieste, e autrice insieme al suo gruppo di ricerca di un recente lavoro scientifico pubblicato su Cell Host & Microbe, che mette un tassello verso l’eliminazione completa del virus.

«La risposta è “nì” perché con tutte le risorse messe a disposizione per sconfiggere questo virus, sia economiche che umane, oggi ancora non sappiamo se c’è realmente una cura e come questo virus provochi la malattia. È noto che il virus infetta le cellule del sistema immunitario (cellule T) e si replica al loro interno uccidendole, ma in che maniera questo processo porti allo sviluppo di una malattia così letale, no, questo ancora non è chiaro. Noi sappiamo solo che uccide la cellule T e crediamo che sia il motivo principale per cui si sviluppa l’immunodeficienza, ma non è ancora stato dimostrato in maniera definitiva».

Se è vero che a trent’anni dalla comparsa di questa malattia ancora non si è trovata una cura definitiva, è anche vero che la sopravvivenza delle persone affette da Hiv/Aids è aumentata notevolmente, grazie soprattutto alla terapia a base di farmaci antiretrovirali Art. Un cocktail di farmaci che riesce a tenere a bada il virus quando è in fase attiva – cioè quando si replica – senza però eradicarlo del tutto.

Quando il virus dell’Hiv, un Rna virus, infetta la cellula, viene retrotrascritto e diventa cDNA che poi si integra e “fonde” con il Dna della cellula ospite diventando “invisibile” per il sistema immunitario dell’individuo ospite e i farmaci. A questo punto può rimanere latente, andando a costituire un serbatoio di virus che può restare fermo anche anni o attivarsi replicandosi e infettando altre cellule. «Le terapie che abbiamo oggi a disposizione, riescono a controllare fino a un certo punto la replicazione virale – prosegue Marina Lusic – ma dopo un po’, quando il virus entra nello stato silente, queste terapie non bastano».

La conseguenza è che ora grazie a queste terapie le persone hiv-positive vivono molto più a lungo e la diffusione del virus è stata drasticamente ridotta, ma dall’altra la terapia è pesante ed è cronica. «Terapie come la Art devono essere usate sempre, perché nel momento in cui viene interrotta, il virus si riattiva. Bisogna pensare a un’alternativa come il vaccino, su cui i ricercatori stanno ancora lavorando ma senza grossi successi o l’eradicazione del virus tramite diversi approcci come lo “shock and kill” a cui stiamo lavorando anche noi: si riattiva il virus latente nascosto all’interno di queste cellule e poi si somministrano i farmaci in grado di eliminarlo» racconta a Linkiesta la ricercatrice dell’Icgeb. «È anche il caso del Vorinostat, composto testato da un gruppo di ricercatori americani, in grado di riattivare il virus. Il farmaco in fase II di sperimentazione clinica non si è mostrato però sufficientemente forte, perché riesce a riattivare il virus ma solo fino a un certo punto».

«Bisogna individuare il meccanismo che usa il virus per nascondersi all’interno delle cellule per riuscire a risvegliarlo e ucciderlo – continua Lusic – ed è quello che abbiamo provato a fare noi. Abbiamo visto che il virus quando è silente si avvicina a una proteina chiamata Pml (promyelocytic leukemia protein), nota per essere implicata in alcune forme di leucemia. Provando a eliminare questa proteina dalle cellule che contengono il virus, con l’uso dell’arsenico (noi abbiamo usato il triossido di arsenico, mentre un altro farmaco a base di arsenico, il Trisenox, è già approvato dalla Food and Drug Administration americana – Fda – e in uso per alcune forme di leucemie) un’elevata quantità di virus viene risvegliato dalle cellule latenti. Sono stati scoperti diversi meccanismi che sembrano coinvolti nella riattivazione del virus, ma questo sembrerebbe il più forte, per questo si vede un effetto così marcato. Il meccanismo a livello cellulare è molto convincente ma ora bisogna vedere se funzione anche in vivo».

Il primo e per ora unico caso confermato di cura sterilizzante è il famoso paziente di Berlino, Timothy Brown. Un uomo sieropositivo cui fu sottoposto a trapianto di midollo osseo per la leucemia mieloide acuta. Il donatore era naturalmente resistente all’Hiv a causa di una mutazione genetica che impediva al virus di entrare e infettare le cellule T. Dopo sei anni e la sospensione della terapia antiretrovirale, il virus dell’Hiv ancora non è ricomparso.

Un secondo caso più recente e ancora in attesa di conferma, è quello della bambina del Mississipi. Giustificato forse dalla tempestività e aggressività del trattamento. La bimba infatti è stata trattata con un cocktail di farmaci antivirali, lamivudina e nevirapina a partire dalla trentesima ora di vita per 18 mesi. Approccio forse replicabile sui neonati ma solo solo dopo ulteriori studi. «Casi isolati – commenta invece Lusic – bellissimi esempi, che però difficilmente potranno essere replicati e su cui non possiamo basare tutte le conclusioni. Per trattare il paziente in maniera così precoce, bisogna anche sapere in anticipo se è entrato in contatto con il virus e non sempre è possibile».

Se il virus viene attaccato subito c’è meno possibilità che entri nello stato di latenza, inoltre con il progredire dell’infezione il virus diventa sempre più aggressivo perché indebolisce il sistema immunitario e il corpo umano non riesce a difendersi. «Questa è il principio alla base dell’idea che bisogna agire presto, ipotizzata già da un paio d’anni. Prima si aspettava il calo delle cellule T e solo quando si dimostrava che il loro numero diminuiva allora si iniziava la terapia. Ma a quel punto secondo me era già troppo tardi».

Oggi circa 8 milioni di persone affette da Hiv che vivono in Paesi poveri e in via di sviluppo hanno a disposizione una terapia a base di antiretrovirali contro l’Aids e solo nel 2011 in 25 Paesi i nuovi contagi sono diminuiti del 50% grazie ad essa. Molti dei quali in Africa, Paese con il maggior numero di casi di Hiv. Mettere a disposizione una cura per tutti i 34 milioni di persone affette da questa patologia è un costo difficilmente sostenibile, per questo si continua a cercare cure sempre migliori.

Twitter: @cristinatogna

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