Angelo Scola, due anni a Milano e non sentirli

Nominato arcivescovo il 28 giugno 2011

Oggi sono due anni dalla nomina del cardinale Angelo Scola come arcivescovo di Milano. Considerato il fatto che è del 1941, e molto probabilmente (salvo proroghe) andrà in pensione come tutti i vescovi a 75 anni, il tempo utile per imprimere uno stile, o quantomeno un pensiero, si è fatto breve. È vero, i milanesi badano poco a chi viene a risiedere in piazza Fontana: può succedere che poi se ne vada presto a fare il Papa, come accadde a Ratti e a Montini. Ma è vero anche che il milanese vuole sentire la voce di questo speciale inquilino, desidera sapere che è uno di loro, soprattutto se proviene dalla sua stessa terra. È sempre in questa simbiosi, dentro una specie di reciproca complicità, che si è scritta una nuova pagina della storia della chiesa ambrosiana. É accaduto al Borromeo quando ha deciso di risiedere permanentemente nel luogo destinatogli dall’incarico. Ed è accaduto qualche secolo dopo a Martini, che nel corso della sua lunga presenza ha mostrato un certo mutamento e perfino un’ammorbidimento di alcune asperità caratteriali. Milano ha un pregio, che è pure il suo difetto: si tratta di una diocesi immensa che va avanti con una specie di pilota automatico. Proprio per questo Martini l’ha fustigata, oltre che amata.

Quello che però i milanesi oggi non sentono è la presenza reale del loro vescovo. Prima di Scola perfino Tettamanzi aveva trovato il modo di evitare di scalare la montagna del suo predecessore, tirando fuori uno stile pastorale immediato ed autentico: da parroco più che da vescovo, ma reale. I benpensanti non avevano certo digerito le sue parole dirette alle povertà urbane e al bisogno di dare alla comunità musulmana la dignità della propria identità cittadina, ma ne avevano certo intuito lo stile. Di Scola i milanesi hanno saputo subito il suo “peccato originale”, ma niente di più di questo: una volta giunto in città, il linguaggio è rimasto sostanzialmente lontano dalla vita. E l’abitudine di uscire sempre con la scorta non aiuta certo l’immediatezza e l’espressione del carisma. Quando scrive ce l’ha ancora con il relativismo culturale e il “meticciato” inconsapevole, ma tra Rorty e Benedetto XVI c’è molto di più che una visione diversa della verità: c’è soprattutto una pressione sull’etica che non permette a Scola di seguire veramente la libertà del pensiero. Citare poi Calvino, Pavese o Kerouac è veramente paradossale e non si spiega se non come tipica forma di appropriazione della cultura praticata da sempre dal mondo ciellino. È come se il suo discorso fosse sempre rivolto all’Orbe: Milano è senza dubbio in Europa ma in quella parte d’Europa in cui vivono i milanesi. Ed è principalmente all’Urbe che dovrebbe rivolgersi. Se sta diventando un vezzo parlare all’uomo mondializzato, d’altra parte bisogna ammettere che se non ci fosse stato l’incontro mondiale delle famiglie probabilmente i milanesi non si ricorderebbero una sua uscita pubblica di ampia ricaduta. Ma sì, perchè stupirsi? Tutto ciò è l’incarnazione dello spirito del medio corso, e quindi delle figure “medie” che sono destinate a questa nuova “mediolanum”, decisamente mediocre anche sotto il profilo dell’amministrazione pubblica.

È sempre e solo colpa dei soldi che mancano? Anche la chiesa ambrosiana ha fatto la sua spiritual spending review? Parrebbe di sì: i preti si trovano per decidere quali letture omettere o in quale mese fare la prima confessione, i piani pastorali si assottigliano e il dialogo ecumenico è una ricordo del passato. Dista ormai anni-luce il pianeta in cui la Scrittura veniva letta, riletta, ruminata come fosse l’unico grande cibo dell’uomo metropolitano. A questo punto non sarebbe più onesto riprendere da capo i piani pastorali degli anni Ottanta e sperare che siano i milanesi a cambiare il proprio vescovo?

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