Badanti straniere, ecco chi cura l’Italia che invecchia

Le storie delle assistenti familiari

Tredici anni fa Lara è arrivata in Italia con un volo diretto da Lima, Perù. Ha una camicia azzurra e un maglioncino di cotone blu, che tanto in tanto sistema con le sue piccole mani. Alle orecchie, due perle bianche le illuminano la pelle olivastra. Lei, che è nata sulle Ande a più di tremila metri sul livello del mare, ora condivide con altri suoi connazionali un appartamento della periferia Nord di Milano. Si sposta ogni giorno in tram o in metropolitana per raggiungere il centro della città, mangia cibo italiano, adora il caffè. Nel suo Paese Lara è cresciuta, ha studiato ed è diventata infermiera. A 39 anni, la decisione di emigrare in Italia per fare la badante. «Senza pensarci troppo», dice sorridendo. «Una mia amica mi ha detto che partiva per lavorare e che c’era un posto anche per me, ho fatto il visto e dopo una settimana ho prenotato il volo».

Lara è una delle assistenti familiari straniere che curano ogni giorno i nostri anziani. I più longevi d’Europa, secondi nel mondo solo al Giappone. Non è un caso, forse, che le badanti erano circa un milione nel 2001 e oggi sono diventate 1,6 milioni. E più del 77% non è italiano, con un primato della componente rumena, seguita da ucraine, filippine, moldave, poi marocchine, peruviane, polacche e russe (dati Censis e Ismu). Molte sono donne, solo il 17,6% è di sesso maschile. Un contributo fondamentale per le famiglie italiane, che – secondo un’indagine del Centro studi Idos e Fondazione Unicredit – farebbe risparmiare allo Stato ben 45 miliardi di euro all’anno. Ma che ora, in un’Italia in cui a due famiglie su tre lo stipendio non basta, rischia di entrare in crisi. Molti faticano a sostenere le spese, alcuni scelgono il nero, altri ancora si indebitano.

Quando è arrivata nel nostro Paese Lara non conosceva «neanche una parola d’italiano», racconta. Ma nella struttura per anziani in cui all’inizio lavorava non avevano bisogno delle sue parole. E quando c’era bisogno di comunicare con i pazienti, «parlavo con una collega siciliana che conosceva un po’ di spagnolo e che per un anno mi ha fatto da traduttrice». Nel frattempo si è rimboccata le maniche, ha fatto due anni di scuola e oggi parla un ottimo italiano. Intervallato qua e là da qualche espressione in spagnolo e qualche “b” trasformata in “v”.

Dopo la scadenza del primo contratto a tempo determinato nella casa di riposo, ha cominciato a lavorare a domicilio. «Soprattutto con anziani malati di Alzheimer», racconta. Come quello che assiste in questo periodo, per 48 ore alla settimana. Stipendio: mille euro al mese. Lo cura, gli dà le medicine, pensa alla sua igiene e qualche volta, quando serve, sbriga le faccende di casa. «Ho avuto esperienze con famiglie italiane meravigliose», dice. «Ma da noi, in Perù, è diverso. L’Alzheimer non è così diffuso. Nel reparto di geriatria dove lavoravo c’era un solo caso. In Perù gli anziani lavorano fino a 80-90 anni. Vivono insieme alla famiglia, e se non hanno figli ci sono i vicini di casa che badano a loro. Sono le persone più importanti della comunità. Sono i saggi. La loro voce conta più di quella dei giovani. Nessuno penserebbe mai di affidarli ad altre persone». 

Niente badanti. Lì, in Perù, questo lavoro non esiste. Per Lara è un’invenzione di noi italiani. Perché «le famiglie italiane molte volte sono distaccate», commenta. Eppure anche nel suo Perù, dove non va da cinque anni in attesa di ricevere la cittadinanza italiana («perché poi se mi chiamano e non mi trovano devo cominciare tutto l’iter da capo e fare nuovi documenti»), nelle città più grandi stanno nascendo strutture di accoglienza e cura per anziani.

«Molti miei connazionali che si erano trasferiti in Italia o in Spagna per fare le badanti, con la crisi ora stanno tornando in Perù per aprire nuove strutture per assistere gli anziani». Ma «io non sono d’accordo», ribadisce più volte scuotendo la testa. «Gli anziani vanno curati in casa dai familiari».

Lei, dice, è «stata fortunata, perché quando sono venuta in Italia mi hanno riconosciuto il titolo di infermiera, ma ho tante amiche insegnanti, medici, avvocati alle quali non sono stati riconosciuti i titoli e che ora fanno le badanti». Eppure nell’ultimo periodo anche questo lavoro traballa. Le famiglie non vogliono più spendere tanto e i contratti non vengono rinnovati. Così «molti colleghi stanno tornando in Perù, almeno stanno vicino ai propri familiari». 

Lara parla del Perù come una terra immacolata. Racconta della sua anziana mamma, 93 anni, che ogni mattina «saluta le piantine del suo giardino». Parla delle sue tre sorelle che si prendono cura di lei. Due o tre volte alla settimana si sentono via Skype o per telefono. E poi dice nostalgica: «Voglio tornare in Perù al più presto. Mi mancano molto. Aspetto un altro anno per avere la cittadinanza, altrimenti ritorno. Nel 2000 stavo per tornare, ma poi nella mia città è esploso il terrorismo politico e allora ci ho ripensato». Il solo posto in cui si sente a casa, dice, «è Roma, dove vado di tanto in tanto a trovare i miei cugini. C’è lo stesso odore della mia terra. A volte prendo l’autobus e mi faccio trasportare senza una meta. Ma non mi sono mai persa». Sogna di tornare sulle Ande, Lara, di sentire ancora quel profumo dal vivo. Anche perché qui, in Italia, non si è fatta una famiglia come le sue connazionali. «Non ho mai avuto un fidanzato italiano», dice, «non mi è mai capitato. Magari troverò l’amore tornando in Perù». D’altronde, dice sorridendo, «il mondo si chiama mondo perché si muove in continuazione».  

Lo sa bene Lilia, 60 anni, infermiera di Sofia, che il mondo lo ha girato in lungo e in largo. Dopo aver lavorato in Angola per sette anni e aver vissuto in Germania per uno, cinque anni fa è arrivata in Italia per fare la badante. Prima a Genova, poi a Milano. La sua vita somiglia a un libro di storia. Lilia racconta del regime socialista bulgaro che l’ha fatta fuggire, degli ospedali africani in cui ha lavorato e poi della guerra civile che l’ha fatta tornare in Europa. Alle spalle un matrimonio fallito dieci anni fa e un ex marito che oggi vive negli Stati Uniti.

La sua qualifica da infermiera «qui non vale», dice. «Avrei dovuto fare il tirocinio di un anno, ma alla mia età non ne valeva la pena». Così si è “accontentata” di un corso da operatrice socio sanitaria, Oss, la figura che in Italia sta sotto quella dell’infermiere. Eppure, ci tiene a precisare, «per fare l’infermiera ho fatto un’istituto che in Italia equivale all’università». Ma, confessa, «le famiglie a volte mi pagano come oss, altre volte vogliono risparmiare e mi pagano come badante». E, aggiunge, «io mi sono sempre trovata bene, ma molte badanti straniere non sono contente delle famiglie italiane. Spesso siamo trattate come schiave, molte devono mangiare le stesse piccole porzioni degli anziani e a volte patiscono la fame». 

Il suo accento è un mix tra bulgaro e portoghese, la lingua ufficiale dell’Angola. «Non parlo ancora bene l’italiano», confessa, «ma questa lingua mi piace molto e voglio impararla». Nella borsa conserva un giallo di James Patterson ed Andrew Gross, Seconda Chance. Lo ha appena preso in prestito alla biblioteca comunale. Poi tira fuori un dizionario elettronico e dice: «Se non conosco qualche parola, la digito qui e lui mi dice la parola corrispondente in portoghese o in francese». 

Il suo lavoro è a chiamata. Vale a dire: quando c’è bisogno, viene contattata. Da qualche giorno ha appena finito una sostituzione di tredici giorni. «E ora aspetto che mi chiamino di nuovo». La sua “busta paga” varia dalle 400 alle 600 euro. Alcune ore fatte secondo contratto, altre in nero. Una parte dello stipendio la spedisce in Germania, al suo “nipotino”, per aiutare la figlia a pagargli gli studi universitari. L’altra parte la tiene per lei, ma non le basta per pagarsi l’affitto. Così, in attesa che il Comune di Milano le assegni una casa popolare, per il momento vive in una casa famiglia in periferia. «Dove pago solo 45 euro al mese». E di tanto in tanto, pranza a una mensa comunale gratuita. Proprio accanto alla biblioteca dove va a leggere e prendere in prestito i suoi libri preferiti. 

Ma, nonostante sia il suo lavoro, anche lei non capisce perché gli italiani abbiano smesso di occuparsi dei loro anziani. «In Bulgaria se ne occupano i figli», racconta, «il lavoro di badante non esiste. L’anziano va a vivere con loro e se non hanno spazio comprano una casa più grande. In Italia gli anziani che ho curato soffrono soprattutto la mancanza dei familiari. Quando i figli vengono a trovarli, la loro faccia cambia, si vede che stanno meglio». Ecco perché, ribadisce più volte, «il nostro è un lavoro importante soprattutto a livello umano. Oltre alle medicine, gli assistiti hanno bisogno di una carezza». 

A Milano Lilia è arrivata nel 2011, dopo qualche anno trascorso a Genova. «Da lì sono andata via, non mi pagavano i contributi e per questo motivo non sono riuscita a ottenere la disoccupazione quando non lavoravo». Nel capoluogo lombardo, invece, si è affidata alla cooperativa “Sereni insieme”, che fornisce servizi di assistenza alle famiglie della città. Tanti immigrati bussano ogni giorno alla porta di viale Tibaldi. Annalisa Di Carlo, psicologa responsabile dell’agenzia, li accoglie, chiede loro curriculum e referenze, e poi organizza un incontro con le famiglie. 

Una selezione destinata ad aumentare, visto che secondo il Censis la crescita della domanda di servizi di assistenza porterà il numero degli attuali collaboratori a più di 2 milioni nel 2030. Il doppio rispetto al 2001. Un boom, scrive Mara Tognetti Bordogna in Donne e percorsi migratori, favorito dall’assegna di servizi pubblici, che ha consentito «alle donne italiane di lavorare fuori casa “conciliando” gli impegni familiari, senza nulla cambiare nella relazione di genere». Un sostegno essenziale, insomma, per consentire alle donne italiane, che hanno ancora in carico il 70% del lavoro domestico, di entrare nel mondo del lavoro vero e proprio. Donne sostituite da altre donne. Più povere.  

@lidiabaratta

La prima puntata: 

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