I verdetti dei processi a carico di Silvio Berlusconi (caso Ruby e, più ancora, quello della Cassazione sui diritti Mediaset) già si profilano come una specie di sfida all’OK Corral tra due tifoserie che, da quasi quattro lustri (1994-2013), si scontrano sul piano politico e sul piano giudiziario: berlusconiani e antiberlusconiani.
Non tifo per le sentenze, figuriamoci per le condanne, e non mi identifico con nessuna delle due fazioni contrapposte. Tifo invece perché, almeno dopo questa sfida finale, sia fatta chiarezza sul concetto di garantismo. Con la solita straordinaria capacità comunicativa, Berlusconi è infatti riuscito a trasformare le sue battaglie processuali in contese tra garantisti e giustizialisti: secondo questo punto di vista parziale, solo chi auspica verdetti favorevoli meriterebbe l’appellativo di garantista. E invece non è così: il garantismo non prevede che ogni processo debba concludersi con un’assoluzione, né può coincidere con il riconoscimento del diritto di eludere le leggi. Il garantismo è tutt’altro: è la rigorosa osservanza delle garanzie giuridiche a tutela dell’individuo sottoposto ad azione penale, l’arte della ricerca della verità mediante confutazione. Perché, come diceva Leonardo Sciascia, in assenza di dubbio «anche le cose vere gridate e diffuse dagli altoparlanti assumono apparenza d’inganno».
Ma se Berlusconi, assorto nei suoi processi, del garantismo ha distorto il concetto, con questi primi provvedimenti contro il sovraffollamento delle carceri l’attuale maggioranza il garantismo sembra averlo del tutto dimenticato. Se è vero che è impossibile creare nuove strutture in poco tempo e che il governo si ritrova quasi costretto ad adottare in tempi rapidi provvedimenti per ridurre la popolazione carceraria, è vero anche che i detenuti meno “meritevoli” di stare in carcere sono quelli in attesa di giudizio, non certo quelli che hanno subìto un regolare processo concluso con una sentenza definitiva.
Il carcere prima del processo dev’essere extrema ratio, ma nei fatti non sempre è così: è innegabile che le attuali norme del codice di procedura penale si prestano ad applicazioni non rigorose. Un coraggioso intervento diretto a rendere più stringente la disciplina delle misure cautelari raggiungerebbe il duplice obiettivo di ridurre tanto le applicazioni approssimative quanto il sovraffollamento. Invece si è scelto di limitare drasticamente l’ingresso in carcere a valle del processo penale, favorendo l’accesso in massa alle misure alternative, e contemporaneamente si sta confezionando un ulteriore “svuotacarceri” che prevede l’uscita anticipata dal carcere per i detenuti (inclusi i recidivi) che devono scontare gli ultimi quattro anni di pena (e non tre, come attualmente previsto).
Non sfugge l’irragionevolezza del sistema: il condannato in via definitiva al quale, a conclusione di un lunghissimo processo penale, dev’essere applicata la pena della reclusione in carcere lo si manda ai domiciliari o gli si concede la liberazione anticipata anche se recidivo, mentre il semplice indagato, che non essendo ancora iniziato il processo non ha avuto modo nemmeno di cominciare a difendersi, continua a essere sottoposto al regime delle misure cautelari con il solito percorso preferenziale della custodia in carcere. Insomma, liberi tutti (o quasi) i colpevoli accertati e ristretti in carcere quanti potrebbero essere assolti in un futuro processo. Come dire, né sicurezza né garantismo.