Apertura dal lunedì alla domenica, dalle 9 alle 21. E se sono presenti cinema e ristoranti, orari estesi fino a mezzanotte. Dall’inizio del 2012, dopo il decreto Salva Italia del governo Monti, gli italiani hanno letto queste indicazioni sugli ingressi di quasi tutti i centri commerciali, e hanno apprezzato. I consumi si sono progressivamente polarizzati nei weekend, a scapito dei giorni feriali, e la domenica è divenuta il secondo giorno più frequentato della settimana, dopo il sabato.
Sotto il profilo dell’opinione pubblica, tuttavia, continuano a farsi sentire alcune resistenze, che interessano in modo trasversale il mondo cattolico, politico e sindacale. Quello che invece ancora non è emerso è che alcune riflessioni cominciano a farle anche i negozianti. Soprattutto i piccoli punti vendita che sono presenti nei centri commerciali e che non possono scegliere liberamente quando tenere alzata la saracinesca.
Il saldo tra i maggiori costi e ricavi è positivo o negativo? «Negativo» risponde il responsabile dello sviluppo di Inticom spa (marchio Yamamay), Marco Federico del Ponte. «Senza le aperture domenicali avremmo ottenuto gli stessi risultati dell’anno 2012. Riteniamo pertanto che il fatturato potenziale si sia solamente diluito su un numero maggiore di giorni».
Una voce non isolata: «Purtroppo, da un’approfondita analisi sull’anno fiscale 2012 (febbraio 2012-gennaio 2013) è emerso che la liberalizzazione degli orari non ha affatto portato benefici in termini di profitto – dicono Maurizio Oprandi e Giacomo Guida, manager della catena di videogiochi GameStop -. Sicuramente, dal punto di vista del cliente, questo risulta essere un miglior servizio, che però non si traduce in maggiori acquisti. Piuttosto, abbiamo rilevato un cambio di abitudini dei consumatori, i quali hanno spostato le proprie visite dai giorni feriali e, soprattutto, dal sabato alla domenica. Detto questo, possiamo affermare che il rapporto sbilanciato tra i costi e i ricavi ha determinato un impatto negativo sull’Ebit, pari al -5,3 per cento».
La stessa associazione di categoria Confimprese, che rappresenta 300 catene di negozi e ristoranti presenti soprattutto nei centri commerciali, pur essendo molto favorevole alle aperture a oltranza ha ammesso che i risultati non sono quelli sperati. Secondo un loro studio le aperture domenicali hanno fatto aumentare il costo del lavoro tra il 6% ed il 30 per cento. I consumi, in calo dello 0,5% tra ipermercati e supermercati anche nei primi quattro mesi del 2013 (Fonte: Retail Market Analysis- Confimprese Lab a cura di Nielsen), non coprono le maggiori spese, per cui i commercianti cercano di limitare al massimo i costi di gestione.
In questa voce rientra la forza lavoro, per la quale nel 2012, all’interno dei centri commerciali, si è speso, per effetto delle domeniche, lo 0,5% in più in rapporto al fatturato (Fonte: Confimprese Lab). Ma invece di creare nuovi posti di lavoro e alzare i salari, la normativa rischia di ottenere il risultato opposto: spalmare i turni su più ore e più giorni, con pochi euro di differenza, penalizzando ulteriormente la condizione dei lavoratori del retail. Secondo i sindacati l’incremento contrattuale è attorno all’1% mentre i salari reali sono in arretramento del 5%-10 per cento.
Il tema delle cosiddette liberalizzazioni dei giorni e degli orari di apertura ha creato, dunque, molteplici punti di vista, spesso contrastanti. Come riportato in uno speciale del mensile retail & food, da una parte si schierano a favore delle aperture domenicali estese tutto l’anno i gestori di centri commerciali e alcune associazioni di riferimento per il retail, come la stessa Confimprese, Assofranchising e il Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali. Dall’altra il fronte delle insegne si spezza, diviso tra un giudizio completamente negativo e un atteggiamento più conciliante sulla modalità con cui i gestori dei centri hanno calendarizzato le aperture. Questo perché le catene più grandi per numero di punti vendita e per superficie di formato riescono ad armonizzare più facilmente i turni del personale, spalmandoli in tutto l’arco della settimana, mentre quelle più piccole incontrano limiti oggettivi nella gestione del negozio.
Quello che i “retailer” chiedono non è di tornare alle domeniche senza commercio ma di rivedere gli orari infrasettimanali. Dice ancora Marco Federico Del Ponte di Inticom (Yamamay), catena che ha visto crescere dell’80% le domeniche di apertura nel 2012: «Siamo favorevoli a un percorso di modernizzazione della distribuzione nell’ottica di un maggiore servizio alla clientela. Ma riteniamo opportuno un intervento da parte dei gestori dei centri commerciali sia per limitare i costi di gestione delle gallerie sia per ridurre gli orari di apertura nei giorni feriali».
Guardando al breve termine non sembrano previsti cambi di rotta: «da un sondaggio informale tra i nostri associati emerge che il 70/75% degli shopping center italiani sono aperti in tutte o in gran parte delle domeniche», ha reso noto Pietro Malaspina, presidente del Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali. Ma a guadagnarci sono pochi grandi complessi. Tra questi ci sono I Gigli di Campi Bisenzio, vicino a Firenze, che nel 2012 ha visto crescere i visitatori del 22,5%, per un totale di 17,5 milioni di persone, in virtù delle domeniche di apertura, e dei giorni totali passati dalli 326 del 2011 ai 357 del 2012.
L’unico caso di rottura del fronte delle aperture domenicali, da parte delle grandi superfici, è stato finora quello della «Unicomm srl» di Dueville (Vicenza), di proprietà della famiglia Cestaro. L’azienda, concessionaria delle insegne «A&O», «Emisfero», «C+C» e «Famila», ha deciso di tenere chiusi di domenica tutti i punti vendita di quest’ultimo marchio, esclusi quelli nelle località turistichem fino all’inizio del periodo natalizio. Passato il quale, la serrata riprenderà fino a Pasqua 2014. Quella che è stata chiamata “Operazione buona domenica” ha incassato i complimenti del governatore veneto Zaia ma è rimasta, al momento, una scelta unica nella grande distribuzione italiana.