Nel 2008, l’economia mondiale sembrava irrimediabilmente avviata verso un tunnel cieco fatto di crisi e protezionismo ma la luce venne dalle economie emergenti, i Bric (Brasile, Russia, India e Cina) in particolare. Soffrirono, soprattutto Russia e Brasile, le conseguenze della recessione nei paesi avanzati, ma ritrovarono velocemente il proprio sentiero di crescita, trainando con sé Stati Uniti ed Europa. In quel frangente, la Cina iniziò anche a modificare il suo modello di sviluppo, mostrando maggiore attenzione per la domanda interna e l’innovazione, e non soltanto per le esportazioni e la competitività basata sul costo del lavoro.
Questa volta è diverso. Di fronte alle difficoltà in cui, sia pure con modalità differenti, si dibattono Stati Uniti ed Europa, i Bric non sembrano in grado di spingere l’economia mondiale e, anzi, vivono un forte rallentamento della propria crescita.
Sei trimestri di crescita sotto 8% – in Cina erano 20 anni che non succedeva – e chi ha investito i propri risparmi in borsa non può che guardare con tristezza al rendimento delle azioni – un modestissimo 0,4% annuo sugli ultimi 12 anni. Le politiche monetarie e fiscali rimangono accomodanti, ma questo non è sufficiente per risollevare le sorti dell’economia e il governo è stato costretto a ridurre le previsioni. Anche se si discute di allargare una volta ancora i cordoni della borsa, diminuire le imposte dirette e introdurre l’Iva e aumentare il deficit pubblico, i cittadini non si fidano. Il risparmio continua a crescere, mentre a poco meno di 35% nel 2012, rispetto a 47% nel 1991, il peso dei consumi nel Pil si riduce al lanternino.
Per fare ritrovare all’economia i tassi di crescita cui tutti ci eravamo abituati negli anni del boom, il mercato immobiliare è centrale. I prezzi continuano ad aumentare, ma i nuovi progetti scarseggiano e quindi il settore delle costruzioni contribuisce poco alla crescita. La speranza è che prima o poi i crediti che il sistema bancario pubblico è disposto a fornire ai costruttori verranno utilizzati. Il rischio è che aumentino anche i crediti incagliati e che le banche si ritrovino in braghe di tela.
Rallentamento ciclico o crisi strutturale? La presenza di un grande margine di capacità inutilizzata, non meno che le inchieste sul sentimento degli imprenditori, suggeriscono che la Cina dovrà abituarsi a un new normal di crescita relativamente modesta. Rispetto all’aumento delle risorse a disposizione della ricerca e anche delle pubblicazioni scientifiche, nonché al miglioramento del livello medio d’istruzione, i risultati in termini d’innovazione sono abbastanza deludenti. In più c’è la spada di Damocle della demografia: invecchiamento della popolazione, tasso di fertilità in caduta libera, soprattutto nelle grandi città e tra le donne istruite, squilibrio sempre più visibile tra numero di neonati e neonate.
Il rallentamento dei Brics. Fonte: The Economist
Appena 5% nell’anno fiscale iniziato il 1 aprile 2013, dopo aver registrato nel 2012-13 il peggiore risultato degli ultimi 10 anni. Le prospettive in India sono ancora più deprimenti, considerando che il paese è tuttora il più povero dei grandi emergenti – 400 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità – e che sotto il 10% le chances di ridurre la povertà sono minime. Scandali a ripetizione, corruzione endemica, lentezza nel reagire – è la debolezza della governance che sta rallentando la domanda, prima sul fronte degli investimenti, ultimamente anche sui consumi.
Le infrastrutture, già insufficienti, non reggono la crescita dell’urbanizzazione – e a ricordarlo a 600 milioni di cittadini e investitori è venuto il grande blackout dell’estate scorsa. Nelle aree rurali i salari quantomeno stanno aumentando, anche se i monsoni nel 2012 non sono stati buoni e hanno messo in luce la fragilità dei nuovi consumatori, che appartengono al famoso bottom of the pyramid. L’inflazione (+4,9% dei prezzi all’ingrosso in aprile) rimane fonte di preoccupazione.
Le elezioni previste per maggio 2014 aggiungono incertezza, scoraggiando per esempio le grandi catene di supermercati a investire, malgrado la timida liberalizzazione del 2012. Nel frattempo una quantità immane di derrate agricole marcisce, perché la catena logistica dell’agroalimentare è vetusta. Per l’apertura dei mercati assicurativi e delle pensioni private, poi, l’attesa sarà ancora lunga. Anche la marcia verso gli accordi commerciali è piena di ostacoli: per firmare quello con l’Unione Europea per esempio ci vorranno ancora mesi, nella migliore delle ipotesi.
Il raggio di sole viene dagli stati in cui tutti gli indicatori di sviluppo umano mostrano miglioramenti. È il caso soprattutto di quelli che come Gujarat e Bihar, o UP, rimangono molto poveri ma in cui il potenziale è enorme e una nuova generazione di leader è determinata a sfruttarlo. Non a caso Narendra Modi, il primo ministro del Gujarat, potrebbe diventare capo del governo se il Bharatiya Janata Party vincerà nel 2014.
Per il Brasile, gli anni 2000, con crescita media del 3,8%, sono andati meglio che il decennio precedente (quando la media era stata 2,6%), ma il primo trimestre è stato deludente (appena 0,6% su base annua, un pibinho). Impossibile arrivare al 3,6% che il governo prevedeva a inizio anno. Anche in questo caso il rallentamento è in parte strutturale e legato alla demografia. La popolazione invecchia, perché ormai quasi il 90% della popolazione vive in città e con l’urbanizzazione è crollata la natalità. La risposta dovrebbe essere puntare sulla produttività, che però rimane bassa. Anche se la tendenza è decisamente positiva, quantità (anni di scuola) e qualità (risultati PISA) della forza lavoro sono inferiori che negli altri grandi emergenti, tranne l’India.
Paesi a maggiore densità demografica. Fonte: The Economist
In compenso negli ultimi cinque anni il costo del lavoro è quasi raddoppiato, l’aumento più rapido al mondo (dati BLS). Di questo soffre molto di più l’industria manifatturiera, che occupa in Brasile un ruolo centrale nel settore produttivo, che i servizi. Che siano finanziari o non-finanziari, questi si beneficiano del dinamismo della massa salariale e della presenza di ceto medio che aspira a standard di consumo pienamente occidentali. Ma il rischio di perdere il controllo è sempre dietro l’angolo – non a caso la banca centrale, che ha grandi difficoltà a rispettare l’obiettivo per l’inflazione, ha appena alzato i tassi direttrici all’8%, in controtendenza rispetto agli altri G20.
Ci si è messa pure la meteorologia – piogge torrenziali nel Sud, siccità nel Nord e il prezzo del pomodoro è più che duplicato in poche settimane! E ormai anche i consumatori iniziano a tirare la cinghia. La situazione del resto sarebbe ancora peggiore se non ci fossero agricoltura e allevamento, che hanno registrato nel 2012 la crescita più vigorosa dal 1998 a oggi.
E poi c’è l’elemento umano. Già latente durante il secondo mandato di Lula, l’attitudine interventista del governo è sempre più evidente e scoraggia gli investimenti. Nei principali national champions, Petrobras e Vale, sono stati sostituiti i capi-azienda che si erano rifiutati di realizzare progetti faraonici di dubbia redditività. Il capitalismo nazionale, dal canto suo, persiste con i comportamenti poco trasparenti: tipico il caso di Abilio Diniz, tuttora presidente della catena di supermercati Pão de Açúcar (anche se a termine sarà costretto a cederla completamente ai francesi di Casino), che alla tenera età di 76 anni ha ssunto lo stesso incarico nel gruppo agroalimentare Brasil Foods, che di Pão de Açúcar è uno dei princiapli fornitori.
La Russia sembra accumulare tutti i problemi degli altri grandi emergenti, senza che sia chiaro dove possa trovare le risorse per liberarsi una volta per tutte della sua estrema dipendenza dall’energia.
Invecchiamento, ma in compenso attesa di vita in diminuzione – questo è il paradosso demografico russo. Senza dimenticare che, se ci sono tante donne russe in Occidente, non è solo perché i maschi occidentali sembrano sensibili al loro fascino, ma molto più prosaicamente perché in Russia non ci sono abbastanza maschi per tutte, a causa dell’alcolismo e della bassa attesa di vita. L’alta faccia della moneta è che la popolazione è molto istruita e l’indebitamento è basso.
In compenso fare business in Russia è difficile, tra l’incudine della burocrazia post-socialista e il martello del capitalismo corrotto. Le piccole e medie imprese sono poche, le grandi speranze riposte nei parchi tecnologici, in particolare quello il Skolkovo Innovation Center nella periferia di Mosca, non si sono ancora materializzate e l’opinione pubblica non serba certo un ricordo grato delle privatizzazioni e rimane scettica sulla qualità del proprio capitalismo nazionale.
Il rallentamento cinese. Fonte: The Economist
E che dire del Sudafrica, la S che ha fatto dei BRICs i Brics? Se guardiamo agli indicatori economici, magari no – il suo Pil è molto inferiore e il tasso di crescita è debole. Come la Russia, il paese dipende tuttora dalla domanda europea, l’UE è il principale partner commerciale, anche se il peso della Cina cresce rapidamente. I prezzi sono una preoccupazione e le richieste salariali, ben al di là delle attese d’inflazione, non aiutano. Se guardiamo invece alla geopolitica, il suo posto è assicurato. Con un membro africano, il vertice BRICS rafforza la propria legittimità a rappresentare il Global South – il cui peso nell’economia mondiale è ormai superiore a quello delle economie tradizionali.
Ovunque, crescente presenza dello stato nell’economia. A Pechino, dopo il rapporto di un anno fa in cui un think-tank statale e la Banca mondiale indicavano chiaramente la strada da percorrere, c’è fermento nell’aria. Sette gruppi di lavoro sono all’opera per produrre raccomandazioni su tutti gli aspetti, comprese le imprese pubbliche e la politica migratoria interna. L’attesa è che queste diventino azioni concrete, riforme da annunciare a ottobre. In Brasile, il governo innova nella gestione delle grandi infrastrutture, per attrarre capitali privati, ma in compenso ha imposto un taglio alle tariffe elettriche e dei trasporti pubblici metropolitani.
Che sia la fine dei Bric? Probabilmente non ancora, anche se i rischi dei BRICs crescono. Quello delle Bolle – finanziarie e immobiliari. Per l’India si parla anche di un possibile downgrade (e già la nota BBB- è la più bassa di tutti i BRIC). Quello di Regioni che smettono di credere al federalismo – per esempio nell’Estremo Oriente russo. Quello degli Impedimenti alla crescita, che siano politico-istituzionali o economico-infrastrutturali, che i governi non sono in grado di risolvere. E infine quello di Capacità produttiva utilizzata in maniera inefficace che fa saltare tutto il castello. Speriamo che non accada, perché le conseguenze sarebbero ben più devastanti che il fallimento di Lehman nel 2007.
I riformisti nei BRICS guardano in questo momento con invidia al Messico, dove governo e opposizioni si sono messi d’accordo su un’agenda di riforme. L’unica grande economia emergente in cui in questo momento si trova un po’ di euforia è proprio quella che nel 2001 Jim O’Neill non integrato nel BRIC, considerandola insufficientemente dinamica…