Claudio Magris e L’Infinito viaggiare

Lo scrittore e la prefazione del testo

Dal sito della Treccani, vita e opere di Claudio Magris, di cui è uscita un’analisi del testo del volume “Infinito Viaggiare”, seguito da una recensione del libro e un estratto della prefazione, da cui è stata tratta la selezione oggetto del tema.

Màgris, Claudio. – Germanista e scrittore italiano (n. Trieste 1939). Ha dedicato importanti studi alla cultura della Mitteleuropa (interessandosi anche di autori italiani di confine, come B. Marin e I. Svevo) e più in generale alla crisi della letteratura contemporanea. È anche autore di opere di narrativa, tra le quali si ricorda Microcosmi (1997).

VITA
Laureatosi a Torino nel 1962, è stato professore di lingua e letteratura tedesca nelle università di Trieste (1968) e Torino (1970), per poi tornare di nuovo a Trieste (dal 1978), dopo aver trascorso un periodo presso l’università di Friburgo. Eletto senatore come indipendente, ha aderito al gruppo misto (1994-96). Nel 2004 ha ricevuto il prestigioso premio Príncipe de Asturias per le lettere. Membro dell’Accademia dei Lincei dal 2006.

OPERE
Tra i saggi dedicati alla cultura mitteleuropea e più in generale alla letteratura si ricordano: Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, 1963; Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, 1971; L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, 1984. La sua produzione narrativa, nutrita di idee e di raffinata eleganza, comprende: Illazioni su una sciabola (1984); Danubio (1986); Un altro mare (1991), mosaico di microstorie in cui si avvertono potenti gli influssi di Svevo; Il Conde (1993); il già citato Microcosmi, con cui ha vinto il premio Strega. Appartengono a una forma monologica Le voci (1996) e drammaturgica Stadelmann (1988) e anche La mostra (2001). È ritornato al romanzo con Alla cieca (2005) e in seguito con la dolente parabola Lei dunque capirà (2006). Le prose di viaggio sono raccolte in L’infinito viaggiare (2005), i saggi su etica e società in La storia non è finita. Etica, politica, laicità (2005). Acuta e di largo respiro la sua saggistica: Dietro le parole (1978), L’altra ragione: tre saggi su Hoffmann (1978) e Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del moderno (1999) e le sue traduzioni da Schnitzler, Ibsen, Franz Blei, Buchner, Grillparzer. Tra gli ultimi lavori di M. si segnala Alfabeti: saggi di letteratura (2008), sorta di autobiografia intellettuale in cui si indagano criticamente le complesse relazioni di ambiguità e ambivalenza tra scrittore e individuo. Nel 2009, nella ricorrenza del settantesimo compleanno dello scrittore, gli è stato dedicato il volume Argonauta, in cui sono raccolti i contributi di intellettuali quali J. Marías, N. Gordimer e C. Staiano, mentre nel 2011 sono stati editi il libro-intervista Claudio Magris. Se non siamo innocenti (a cura di M. Alloli), che indaga nell’universo interiore dello scrittore restituendone una dimensione intima e lacerata, e la raccolta di scritti Livelli di guardia. Note civili 2006-2011, sorta di “manuale di resistenza” per fondare un nuovo patriottismo in grado di opporsi al dilagante disagio sociale. Nel 2012 M. ha pubblicato Letteratura e ideologia, saggio sul ruolo della letteratura nel mondo contemporaneo scritto con Gao Xingjian; è dello stesso anno il primo dei due volumi delle Opere della collana Meridiani, che raccoglie i suoi scritti fino al 1995.

La recensione di Wuz, a firma di Grazia Casagrande

“Viaggiare è una scuola di umiltà, fa toccare con mano i limiti della propria comprensione, la precarietà degli schemi e degli strumenti con cui una persona o una cultura presumono di capire o giudicano un’altra.”

Una raccolta di brevi scritti di viaggio, ricordi e appunti che vanno dal 1981 al 2004, interessanti in sé, ma illuminati da una prefazione che crea nel lettore una straordinaria consapevolezza: quella di avere di fronte un testo importante, una chiave di volta per la comprensione non solo dell’autore, ma anche del proprio modo di stare nel mondo e del proprio osservare. Mi soffermo in particolare sulla Prefazione perché gli scritti che compongono il volume assumono particolare significato, come si è detto, proprio grazie alle 28 pagine iniziali.
Importante è il nesso che Magris subito dà al lettore come spunto di riflessione: c’è una stretta connessione tra l’idea di viaggio e la scrittura, soprattutto oggi in cui si sente con maggior forza l’esigenza di un confronto con la realtà. Inoltre scrittura e viaggio significano sempre separarsi da qualcosa per scoprirne un’altra, allontanarsi da una certezza per avvicinarsi a una meta sconosciuta, a un’idea, a se stessi.
Vari sono i modi del viaggiare, ma fondamentale è la distinzione tra quello classico e quello moderno. Nell’Ulisse Joyce mostra l’ultimo esempio del primo: l’andamento è circolare, il ritorno è a casa, anche se proprio quell’esperienza ha modificato il significato che si attribuisce alla casa stessa. Il moderno viaggiare invece ha un andamento rettilineo (“una retta che avanzi pencolando nel nulla”) e diventa un fuggire, un rompere limiti e legami, lo scoprire la precarietà del mondo e quella del viaggiatore stesso e così l’io inizia a disgregare la propria identità e produrre un altro uomo, “un cammino senza ritorno, alla scoperta che non c’è, non può e non deve esserci ritorno”, che non si può e non si deve essere gli uomini di prima: è l’uomo di Musil, è l’”oltre uomo” di Nietzsche, nel significato vero di questa definizione. Quando ci si mette in viaggio si parte con tutto il carico delle proprie idee e delle proprie sicurezze, ma le situazioni, le necessarie digressioni, il nuovo rapporto col proprio corpo, con la precarietà dell’ambiente sempre modificato e modificabile rende il viaggiatore poco assertivo, ben capace di mediare, lo induce a un inibente timore di offendere l’interlocutore (bellissima a questo proposito la pagina dedicata al soggiorno in Iran).
Lo scrittore cerca di capire il mondo: anche il viaggiatore Magris cerca di capire i tanti mondi che gli si propongono, dai noti e familiari Paesi dell’est o del nord europeo, alla Cina, all’Australia, alla vicina Spagna. Viaggio come momento di ricerca, possibilità di un più profondo possesso del presente, libertà dalle piccole grane della quotidianità che imbrigliano l’anima chiudendola all’esperienza degli altri: “Dante sapeva che l’amore per Fiorenza, appreso dall’acqua dell’Arno, doveva condurlo a sentire che la nostra patria è il mondo, come ai pesci il mare”.

L’infinito viaggiare, prefazione (a firma dell’autore, una selezione)

A Marisa
e ai compagni di viaggio che ho amato e che sono già arrivati.

Prefazione

1. Le prefazioni sono sempre sospette; inutili se il libro che esse introducono non le richiede o indizi della sua insufficienza se esso ne ha bisogno, rischiano pure di guastare la lettura, come la spiegazione di una barzelletta o l’anticipazione del suo finale. Ma forse il prologo si addice a una raccolta di pagine di viaggio, perché il viaggio – nel mondo e sulla carta – è di per sé un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l’angolo; partire, fermarsi, tornare indietro, fare e disfare le valigie, annotare sul taccuino il paesaggio che, mentre lo si attraversa, fugge, si sfalda e si ricompone come una sequenza cinematografica, con le sue dissolvenze e riassestamenti, o come un volto che muta nel tempo. La prefazione è una specie di valigia, un nécessaire, e quest’ultimo fa parte del viaggio; alla partenza, quando ci si mette dentro le poche cose prevedibilmente indispensabili, dimenticando sempre qualcosa d’essenziale; durante il cammino, quando si raccoglie ciò che si vuole portare a casa; al ritorno, quando si apre il bagaglio e non si trovano le cose che erano sembrate più importanti, mentre saltano fuori oggetti che non ci si ricorda di aver messo dentro. Così accade con la scrittura; qualcosa che, mentre si viaggiava e si viveva, pareva fondamentale è svanito, sulla carta non c’è più, mentre prende imperiosamente forma e si impone come essenziale qualcosa che nella vita – nel viaggio della vita – avevamo appena notato.Il viaggio sempre ricomincia, ha sempre da ricominciare, come l’esistenza, e ogni sua annotazione è un prologo; se il percorso nel mondo si trasferisce nella scrittura, esso si prolunga nel trasloco dalla realtà alla carta – scrivere appunti, ritoccarli, cancellarli parzialmente, riscriverli, spostarli, variarne la disposizione. Montaggio delle parole e delle immagini, colte dal finestrino del treno o attraversando a piedi una strada e girando l’angolo. Solo con la morte, ricorda Karl Rahner, grande teologo in cammino, cessa lo status viatoris dell’uomo, la sua condizione esistenziale di viaggiatore.Viaggiare dunque ha a che fare con la morte, come ben sapevano Baudelaire o Gadda, ma è anche un differire la morte; rimandare il più possibile l’arrivo, l’incontro con l’essenziale, come la prefazione differisce la vera e propria lettura, il momento del bilancio definitivo e del giudizio.Viaggiare non per arrivare ma per viaggiare, per arrivare più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai.

2. Il viaggio dunque come persuasione. Forse è soprattutto nei viaggi che ho conosciuto la persuasione, nel senso dato a questa parola da Carlo Michelstaedter; quella vita autosufficiente,libera e appagata che Enrico, il personaggio del mio romanzo Un altro mare, insegue con autodistruttivo e vano accanimento. La persuasione: il possesso presente della propria vita, la capacità di vivere l’attimo, ogni attimo e non solo quelli privilegiati ed eccezionali, senza sacrificarlo al futuro, senza annientarlo nei progetti e nei programmi, senza considerarlo semplicemente un momento da far passare presto per raggiungere qualcosa d’altro. Quasi sempre,nella propria esistenza, si hanno troppe ragioni per sperare che essa passi il più rapidamente possibile, che il presente diventi quanto più velocemente futuro, che il domani arrivi quanto prima, perché si attende con ansia il responso del medico, l’inizio delle vacanze, il compimento di un libro,il risultato di un’attività o di un’iniziativa e così si vive non per vivere ma per avere già vissuto, per essere più vicini alla morte, per morire.Il viaggio incalzante e incalzato, imposto sempre più freneticamente dal lavoro e dalla sua necessaria spettacolarizzazione – specialmente a quel manager di se stesso e dello Spirito che è l’intellettuale, enfasi e caricatura del manager industriale -, è la negazione della persuasione, della sosta, del vagabondare; assomiglia piuttosto a quella eiaculazione precoce che Joseph Roth,riprendendo nel suo romanzo I cento giorni un pettegolezzo in materia riguardante Napoleone,attribuisce all’Empereur, il quale non vuol tanto fare all’amore, quanto averlo subito già fatto,sbrigato e liquidato. Il viaggio del conferenziere, tra un aeroporto o un albergo e l’altro, non è dissimile da questo orgasmo assillato.Ma quando viaggiavo nei vasti paesi danubiani o nei periferici microcosmi, avviandomi in una certa direzione, sempre disponibile a digressioni, soste e deviazioni improvvise, vivevo persuaso, come davanti al mare; vivevo immerso nel presente, in quella sospensione del tempo che si verifica quando ci si abbandona al suo scorrere lieve e a ciò che reca la vita – come una bottiglia aperta sott’acqua e riempita del fluire delle cose, diceva Goethe viaggiando in Italia. In un viaggio vissuto in tal modo i luoghi diventano insieme tappe e dimore del cammino della vita, soste fugaci e radici che inducono a sentirsi a casa nel mondo. C’è il viaggio al di là delle colonne d’Ercole e quello minimo di Pickwick alle sorgenti di Hampstead o quello da una stanza all’altra della propria abitazione, spedizione non meno avventurosa né meno ricca d’incanti e di rischi. I capitani fiumani e triestini di lungo corso che attraversavano gli oceani chiamavano beffardamente “capitan de cadin” (di catino) quelli che percorrevano solo piccoli tratti fra Trieste e l’Istria o tra Fiume e le vicine isole del Quarnero, ma anche in quel golfo la bora provoca tempeste in cui si può naufragare.Pure nei capitoli di questo libro si va agli antipodi ma anche nei microcosmi dei bisiachi o nei nanocosmi della Ciceria e il passo del viaggiatore vorrebbe assomigliare al-l’andatura di Lawrence Sterne. Viaggiare sentendosi sempre, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa, ma sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che prima e dopo di lui albergano sconosciuti, non possiede il guanciale su cui posa il capo né il tetto che lo ripara. E così comprende che non si può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine. Non per nulla il viaggio è anzitutto un ritorno e insegna ad abitare più liberamente, più poeticamente la propria casa. Poeticamente abita l’uomo su questa terra, dice un verso di Hòlderlin, ma solo se sa, come dice un altro verso, che la salvezza cresce là dove cresce il pericolo. Nel viaggio, ignoti fra gente ignota, si impara in senso forte a essere Nessuno, si capisce concretamente di essere Nessuno. Proprio questo permette, in un luogo amato divenuto quasi fisicamente una parte o un prolungamento della propria persona, di dire, echeggiando don Chisciotte: qui io so chi sono.

3. “Dove siete diretti?” si chiede nell’Enrico di Ofterdingen, il grande romanzo di Novalis. “Sempre verso casa” è la risposta. Il suo è uno dei grandi libri nei quali il viaggio appare quale odissea ovvero quale metafora del viaggio attraverso la vita. Ogni odissea pone l’interrogativo sulla possibilità di attraversare il mondo facendone reale esperienza e formando così la propria personalità; la domanda se Ulisse – specie quello moderno – alla fine torni a casa confermato,nonostante le più tragiche e assurde peripezie, nella propria identità e avendo trovato o ribadito un senso dell’esistenza, oppure se egli scopra soltanto l’impossibilità di formarsi, se egli perda per strada se stesso e il significato della sua vita, disgregandosi anziché costruirsi nel suo cammino. Nella visione classica il soggetto, pur smarrito nella vertigine delle cose, finisce per trovare se stesso nel confronto con questa vertigine; attraversando il mondo – viaggiando nel mondo – egli scopre la propria verità, quella verità che all’inizio in lui è soltanto potenziale e latente e che egli traduce in realtà attraverso il confronto col mondo. L’eroe di Novalis viaggia in lontananze spaziali e temporali ma per arrivare a casa, per trovare se stesso attraverso il viaggio; nel Principio speranza Bloch dice che la Heimat, la patria, la casa natale che ognuno nella sua nostalgia crede di vedere nell’infanzia, si trova invece alla fine del viaggio. Quest’ultimo è circolare; si parte da casa, si attraversa il mondo e si ritorna a casa, anche se a una casa molto diversa da quella lasciata, perché ha acquistato significato grazie alla partenza, alla scissione originaria. Ulisse torna a Itaca, ma Itaca non sarebbe tale se egli non l’avesse abbandonata per andare alla guerra di Troia, se egli non avesse infranto i legami viscerali e immediati con essa, per poterla ritrovare con maggiore autenticità.Il Bildungsroman, il romanzo di formazione che si pone un problema centrale della modernità ossia si chiede se e come l’individuo possa realizzare o no la propria personalità inserendosi nell’ingranaggio sempre più complesso e “prosaico” della società, è quasi sempre – dal Wilhelm Meister di Goethe all’Enrico di Ofterdingen di Novalis – pure un romanzo di peregrinazione, di viaggio. Ma presto qualcosa, nel rapporto fra il singolo e la totalità che lo avvolge, s’incrina; nella macchina della società moderna il viaggiare diventa anche un fuggire, un violento rompere limiti e legami. Il viaggio scopre non solo la precarietà del mondo, ma anche quella del viaggiatore, la labilità dell’Io individuale, che comincia – come intuisce con spietata chiarezza Nietzsche – a disgregare la propria identità e la propria unità, a diventare un altro uomo, “oltre l’uomo”, secondo il significato più autentico del termine Ubermensch, che non indica un superuomo, un individuo tradizionale più dotato degli altri, ma un nuovo stadio antropologico, oltre l’individualità classica.Il viaggio diviene allora un cammino senza ritorno, alla scoperta che non c’è, non può e non deve esserci ritorno. Al viaggio circolare, tradizionale, classico, edipico, conservatore di Joyce, il cui Ulisse torna a casa, subentra il viaggio rettilineo, nietzscheano dei personaggi di Musil, un viaggio che procede sempre avanti, verso un cattivo infinito, come una retta che avanzi pencolando nel nulla. Itaca e oltre, come dice il titolo di un libro che ho scritto; le due modalità esistenziali,trascendentali del viaggiare. Nella seconda il soggetto, l’Io, il viaggiatore si getta sempre in avanti;non porta se stesso, tutto se stesso, nel suo procedere, ma ogni volta annienta l’intera sua identità precedente e si getta via. “Làchez tout”, mettersi in viaggio, scriveva nel 1922 Breton esortando al dépaysement. L’Io delle pagine che seguono cammina talora, anzi spesso, sull’orlo di questa dissoluzione, guardala scia della sua vita disperdersi dietro di lui, ma è un guerrigliero che cerca di resistere a quella dispersione e di portarsi dietro – fedele a tutto, nonostante tutto – la vita intera, come una tartaruga che viaggia insieme alla sua casa. Perdendosi nel mondo e abbandonandosi al mondo si disgrega,ma infine pure si riconosce e si ritrova, come dice la parabola di Borges che ho scelto quale epigrafe per i miei Microcosmi: “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.

4. Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma,salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte.Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte. 

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