Secondo le parole del presidente del Consiglio Enrico Letta è Roma «la capitale europea contro la disoccupazione dei giovani e a favore dell’occupazione», sempre dei giovani. Da qui è – secondo l’opinione di molti – il passaggio, sempre più stretto, per superare la crisi e rilanciare l’economia. E da qui è anche la proposta (che sarà presente nel decreto previsto per la prossima settimana) di abbassare il costo del lavoro per le assunzioni a tempo indeterminato dei più giovani. Un punto di inizio che, però, deve portare a una riforma più ampia e strutturale. Soprattutto, condivisa a livello europeo, che è dove l’Italia «deve far sentire la sua voce», secondo quanto sostiene Mauro Magatti, preside di sociologia all’Università Cattolica di Milano.
Ridurre i costi del lavoro per i neoassunti. Buona idea, no?
Credo di sì. Al momento, il ministro Enrico Giovannini ha cominciato il suo lavoro in modo sensato, a mio avviso. Cioè delineando le direzioni in cui si vuole muovere, che sono tre: mantenere rapporti costruttivi con le parti sociali, introdurre misure adeguate per dare stimoli concreti, portare la questione a livello europeo. Credo che l’articolazione della sua azione sia giusta, sensata.
Ma basta?
Ecco, diciamo che il punto è che c’è una grave sproporzione, una distanza tra la gravità della situazione è l’iniziativa del governo.
In che senso?
Nel senso che la azione è buona, e va bene. Ma il problema, adesso, è molto grave e richiede un atteggiamento diverso. Cioè non questo: anche se detassare il lavoro è cosa lodevole e giusta, prevale, di fondo, una visione fatalista. Nel breve periodo si può agire, ma servono decisioni di più ampio respiro, che riescano a inquadrare il problema nella sua interezza: entrando nell’euro abbiamo cambiato le condizioni esterne della nostra crescita, cioè i vincoli con l’Europa, ma non abbiamo cambiato le condizioni interne. È finita l’epoca in cui si poteva agire sul cambio, e però non c’è stata la capacità di stare al passo con il resto dell’Europa.
Che invece va a metà.
I paesi del centro nord, certo. L’Italia si trova nelle condizioni peggiori. Mentre i paesi con cambi rigidi hanno trovato una situazione favorevole, noi siamo rimasti schiacciati tra i vincoli e le difficoltà di innovare, con il risultato che abbiamo perso produttività. E allora l’unica strada, come avevo detto prima, è quella di portare la questione in Europa. E di questo se ne deve occupare il governo. Solo con una strategia diffusa e condivisa: anche perché il gioco delle colpe tra i paesi è di fatto sbagliato.
Cioè?
Siamo in un groviglio: ognuno ha i suoi meriti e le sue colpe. I paesi del Sud hanno torto perché non hanno realizzato le riforme necessarie per stare al passo con l’economia, ma anche la Germania deve interrompere questa politica che può portare solo alla distruzione dell’Europa. Sembra una lite tra marito e moglie, dove le colpe si mescolano e non si riesce a trovare il responsabile. La verità è che se ne trovano da entrambe le parti. Ma, aldilà di questo, il primo passo è una politica europea.
Anche per parlare di lavoro e disoccupazione.
Certo. E in questo senso le misure prese dal governo sono giuste: anzi, io sarei anche più drastico nel taglio del costo del lavoro. Poi, ci vuole una politica riformatrice, visto che, a mio avviso, c’è un legame nel fallimento delle riforme istituzionali e la perdita di lavoro nel paese. E anche nell’incapacità di riformulare il ruolo delle università e della scuola, che deve riaprire a insegnare a dare e produrre valore.
Valore?
Di ogni genere. Di conoscenza, di capacità. Ormai la crisi impone la necessità di produrre valore. L’inerzia degli ultimi decenni è insostenibile, dobbiamo guardare alla Germania, che è un buon esempio: sono riusciti a creare valore a ogni livello. Ma è perché avevano un progetto politico.
Noi diamo soldi ai centri per l’impiego.
Ecco, se fossimo in una situazione in cui il mercato è vivo, allora sarebbe anche comprensibile. Ma in questo periodo di stasi non è proprio l’urgenza, quella.
Ma quanto tempo resta?
Su questo sono pessimista. Di sicuro, entro ottobre (cioè dopo le elezioni tedesche) sarebbe meglio aver messo in cantiere un progetto di ampio respiro, che si muova a livello europeo. Ma l’Italia deve far sentire la sua voce senza sensi di colpa, e senza espressioni sbagliate nella loro natura come “compiti a casa”. Perché abbiamo difficoltà, ma non sono colpe: semmai sono mancanze di responsabilità.