E.R., giovani medici precari in prima linea

Nel 2011, 386 nuovi medici italiani sono emigrati in Inghilterra

Camice bianco, stetoscopio, cartella clinica in mano. E, incredibilmente, precari. Quando la nonna diceva “Fatti medico, che così guadagni tanto” di certo non immaginava che la crisi economica avrebbe acciaccato anche la professione “certa” per eccellenza. La Fp Cgil li ha contati: i giovani medici con contratti a tempo determinato o a chiamata nel settore pubblico sono almeno 10mila, più dei 7mila ufficiali monitorati dal ministero dell’Economia e delle finanze nel 2011. Tanto che, davanti a rapporti di lavoro con orari sfiancanti e retribuzioni inconsistenti, in tanti scappano all’estero. Soprattutto verso Germania e Inghilterra. Solo nel 2011 le nuove iscrizioni di medici italiani al General Medical Council (l’ordine dei mediciinglese) sono state 386 (al quarto posto dietro a Pakistan, India e Romania). Insomma: noi paghiamo l’università per mandare i nostri dottori a curare i pazienti stranieri. 

Il dottor Innocenzi ha 40 anni. In dieci anni al pronto soccorso di un paese in provincia di Viterbo ha collezionato 15 contratti a tempo determinato. «All’epoca c’era carenza di personale e hanno fatto un’infornata di assunzioni anche senza specializzazione», racconta. Il 15esimo contratto scade il 31 luglio prossimo. Ci sarà anche il sedicesimo? «Non lo so», risponde, «sembra di sì, ma di ufficiale ancora non c’è niente. Quello precedente mi scadeva il 31 dicembre 2012. Sa quando ho firmato? Il 30 dicembre. A Natale non sapevo cosa avrei fatto a Capodanno». Certo, dice, lo stipendio è quello di un medico – «60mila lordi annui» – ma «ho ho avuto molta difficoltà a ottenere il mutuo e non posso fare programmi. Gli stessi pazienti sanno che oggi ci sono, ma non sanno se il 1 agosto ci sarò». Nel suo staff le cose non vanno meglio: su sette medici, tre sono a tempo determinato, due indeterminato e «due a gettone».

I “medici a gettone” sono le partite Iva, «quelli pagati a ore con un gettone di presenza quando c’è bisogno», spiega Massimo Cozza, segretario nazionale della Fp Cgil Medici. «Vengono chiamati ad esempio per fare turni di notte in pronto soccorso. Sono contratti senza alcuna tutela, senza malattia, pensione e ferie, con un tariffario di circa 20 euro all’ora». A monte di tutto, c’è il blocco del turn over per il contenimento della spesa del personale nel sistema sanitario, «che ha creato dei buchi dannosi soprattutto nei punti nevralgici come i pronto soccorso, buchi che le aziende pubbliche tendono a tamponare con i precari. In questo modo viene aggirato il blocco del turn over». «Non fanno in tempo ad abituarsi che quando acquisiscono l’esperienza vengono mandati via», aggiunge Innocenzi. 

Ma non è solo una questione lavorativa, ne va anche della qualità delle cure. «In questa professione serve continuità», ribadisce più volte Cozza. «Se lavoro al pronto soccorso, ho bisogno di un rapporto costante con gli specialisti. Se vengo catapultato e pagato a gettone, non mi coordino bene e questo si ripercuote sui pazienti. La stessa cosa accade nei servizi territoriali, come i centri di salute mentale, sempre più poveri di personale. La verità è che si pensato solo a fare dei tagli lineari, senza guardare al fabbisogno di personale per la popolazione. In teoria ci vorrebbe un operatore ogni 1.500 abitanti, ma non ci sono le forze necessarie per garantirlo».

Nel periodo 2006-2010 la spesa per il personale sanitario – un terzo del totale – è stata dimezzata. Tra il 2002 e il 2006 l’incremento medio annuo era del 4,9%, dopo il 2006 è calato al 2,4 per cento. Ma se i posti a disposizione per i giovani medici diminuiscono, gli accessi alle facoltà di medicina aumentano. «Nel corso degli anni si è assistito a un aumento indiscriminato dei posti e dei corsi di laurea nelle università», spiega Cristiano Alicino, giovane presidente di Federspecializzandi, l’associazione che riunisce i medici specializzandi d’Italia che in questi giorni sta facendo battaglia per riformare il test di accesso alle scuole di specializzazione. «Con più posti a disposizione si ricevono più fondi dal ministero e si possono reclutare nuovi docenti. Il problema, però, è che quest’anno sono stati ridotti anche gli accessi alle scuole di specializzazione. Il divario che si creerà farà si che, in assenza di provvedimenti strutturali, sempre più giovani medici decideranno nei prossimi anni di spostarsi verso l’estero. Molti andranno all’estero non solo per cercare il lavoro che in Italia non c’è, ma anche per specializzarsi». 

«Secondo l’ultimo conteggio, negli ultimi anni sono arrivati al ministero dell’Istruzione oltre un migliaio di richieste di equiparazione del titolo di studio di medicina in altri Paesi», speiga Alicino. L’esodo si sposta soprattutto verso l’Inghilterra: nel 1996, sul totale dei medici, gli italiani oltremanica erano 944, nel 2011 sono cresciuti a 2.253. 

Martino Pengo (a sinistra), 32 anni, è uno di loro. È partito da Padova verso Londra a fine 2011 «per fare un’esperienza all’estero» quando ancora era specializzando in medicina interna. Dovevano essere solo sei mesi «fino a fine specilità», dice. «Poi sono tornato in Italia, ma l’unica cosa che mi hanno offerto è stato di fare le guardie mediche in carcere. Mentre a Londra, quando ancora stavo studiando, mi avevano già chiesto di restare per continuare a fare ricerca». Martino ha accettato di trasferirsi nella capitale inglese, ha vinto la borsa di studio per fare il dottorato all’estero e in più si è aggiudicato una borsa di studio della Società italiana dell’ipertensione arteriosa.

Ora è uno dei giovani medici del Guy’s and St Thomas’ Hospital di Southwark, nel Sud Est di Londra. «Qui ci sono molti colleghi italiani che hanno seguito il mio stesso percorso», racconta Martino, «la grande differenza rispetto all’Italia è che qui ci sono più opportunità, soprattutto di ricerca». Martino è anche figlio d’arte, «ma non volevo nessun aiuto in Italia perché sono figlio di un medico, voglio andare avanti con le mie gambe e so che in Inghilterra posso farlo. In Italia no».

Anche Carlo Gravina, 29 anni e una laurea in medicina all’Università di Firenze, da poco si è trasferito a Londra. «Sin da studente la mia passione era la chirurgia e appena laureato ho continuato a frequentare il reparto di chirurgia dove avevo fatto la tesi», racconta. Che significava di fatto «vagabondare per il dipartimento 12 ore al giorno senza fare praticamente nulla, aspettando solamente di fare da corteo per il prof che faceva il giro di visite». Finché «un giorno uno dei prof mi chiese di andare dall’altra parte di Firenze per spostargli il motorino perché lo aveva lasciato in divieto di sosta e io lo feci. Mi ricordo che la cosa peggiore per me non fu tanto il fatto già di per sé umiliante di fare da parcheggiatore, ma che lo avevo fatto quasi con gioia perché almeno avevo qualcosa da fare. Quello è stato il mio punto di svolta». Prima è partito per una vacanza studio all’estero, poi ha lavorato nel centro prima accoglienza di Elmas in Sardegna e alla fine si è concesso anche un’esperienza in Etiopia a fare il medico nelle cliniche rurali.

Nel 2011 comincia a «fare le carte per farmi riconoscere i titoli in Inghilterra». Il test di ingresso alla scuola di specializzazione di Firenze non va a buon fine, ma fine anno ottiene il via libera dall’ordine dei medici inglese per partire e nel gennaio 2012 si trasferisce a Londra. «Arrivato in Inghilterra ho fatto un mese circa di corso di lingua inglese visto che lo sapevo in maniera molto “turistica”. Poi un primario italiano mi ha accettato nel suo dipartimento in un ospedale e ho iniziato a fare quello che qui chiamano “honorary”, un medico non retribuito, in soldoni lo stesso che facevo in Italia».

Perché certo l’Inghilterra non è il paradiso: «L’inizio non è stato facilissimo, ho dovuto confrontarmi con un sistema completamente diverso, lingua diversa, e un futuro ancora molto incerto, eppure sin da subito ho avuto la possibilità di imparare. Per i primi mesi la mia situazione formalmente era identica a quella che avevo in Italia, la sostanziale differenza è che mi venivano date responsabilità e mi sentivo non un servo alla corte del pezzo grosso di turno, ma una parte del gruppo che gestiva il reparto con le mie responsabilità, i miei doveri e miei diritti». A luglio poi  è arrivato il contratto tanto atteso. E ora? «Il mio piano adesso è di entrare nel sistema di specializzazione inglese che non è una passeggiata, ma molto più formativo di quello italiano e uno tra i migliori in assoluto». 

Twitter: @lidiabaratta

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