«Twitter è divenuto un problema per il nostro premier» dice Esra Arsan, docente e specialista di media alla Bilgi University di Istanbul. «Secondo una ricerca della New York University dalle 4 di pomeriggio fino alla mezzanotte di venerdì 31 maggio ci sono stati circa 2 milioni di tweet. La chiave della protesta è stata il crowdsourcing», racconta nella sua conversazione con Linkiesta.
Qual è la natura del movimento #OccupyGezi?
Questo movimento è assolutamente spontaneo: non è connesso con alcun tipo di gruppo marginale come invece ha cercato in tutti i modi di far credere il nostro premier. È iniziato nella maniera più semplice: con una forma di protesta quasi ambientalista e pacifista. Ma le risposte brutali dei reparti della polizia e delle forze di sicurezza hanno provocato una reazione a catena vasta e imprevedibile che poco alla volta si è trasformata in un movimento eterogeneo che tra le sue istanze, dal punto di vista politico, vuole ridiscutere ed ampliare gli esigui spazi di democrazia e di partecipazione offerti dal governo dell’Akp in questi ultimi anni. Occorre precisare che si tratta di un governo che cerca di controllare tutti i reparti della società e tutti i segmenti della vita del cittadino. Dal ruolo della donna, al numero di bambini, all’orario in cui ci è permesso di bere alcoolici, a cosa le donne dovrebbero indossare, il governo ha un’attitudine autocratica, totalitaria che per la prima volta però viene apertamente criticata dall’opinione pubblica. A mio avviso è possibile anche che tutto questo non sarebbe mai avvenuto senza quella reazione spropositata delle forze dell’ordine contro civili e pacifici dimostranti. In realtà la chiave dell’errore della lettura degli eventi da parte di Erdoğan sta nel suo essere sempre più staccato dal contesto sociale: in questi anni ha aumentato a dismisura la distanza dalla gente e non è abituato ad ascoltare le richieste e le istanze dei cittadini. Con il Gezi Parki le ha ignorate di nuovo, credendo che andasse tutto come sempre. Ha represso brutalmente una protesta pacifica credendo che i dimostranti indietreggiassero impauriti. Non ha visto invece l’onda lunga abbattersi impietosamente su di lui.
La società civile però sembrava pronta. Le proteste esistevano già, anche se erano isolate. Di fronte ai continui tentativi di rendere la società turca più conservatrice è bastato un pretesto per mettere fuoco alle polveri.
È corretto. Tutti noi conosciamo il background conservatore di Recep Tayyip Erdoğan, una personalità con un profilo fortemente religioso. Finché resta confinato alla sua vita privata è un conto: se cerca d’imporlo a tutta la società il discorso cambia. Il discorso iniziale dell’Akp è stato sempre: «Noi siamo un partito liberale e conservatore». Nel loro programma politico non c’era alcuna intenzione d’utilizzare gli strumenti della politica per un’operazione d’ingegneria sociale che è quella di trasformare una massa di cittadini in una massa di religiosi. A partire però dalla fine del 2007 i colonnelli dell’Akp, simpatizzanti e lo stesso Erdoğan hanno cominciato a fare maggiore attenzione allo stile di vita delle persone, alle loro attitudini o comportamenti. In questa morsa è finita anche la libertà di parola, la libertà di stampa, l’indipendenza della ricerca sociale tanto da provocare una trasformazione anche all’interno della stessa università. Oggi è in atto una privatizzazione progressiva delle università, attraverso una serie di decreti ad esempio si cerca di limitare le attività accademiche legate alla ricerca sociale. L’atmosfera è dunque tesa a tutti i livelli e la gente è stufa di questo tipo di dirigismo nelle politiche governative.
Erdoğan sembra essere stato però sordo alle richieste del movimento di protesta.
Eppure era assolutamente pacifica e si trattava di un numero abbastanza esiguo di persone. La reazione del governo però è stata così violenta che la gente s’è resa immediatamente conto della sproporzione. Ma il punto è un altro. Tayyip Erdoğan è stato sempre molto bravo nell’utilizzo dei media e in generale nella comunicazione. Questa volta però, a mio avviso, s’è dimostrato incapace. Un bravo governo, un premier intelligente sarebbe stato capace anche di mettersi dalla parte della gente sfruttando l’occasione anche a proprio vantaggio. Se c’è folla per le strade, masse che protestano, basta capire cosa vogliono. Solo così puoi calmare le acque e controllare la situazione e cercare di trarre la situazione a tuo vantaggio. Ma ha fatto esattamente l’opposto, cercando invece di reprimere il dissenso. Erdoğan considera il suo popolo come un esercito di soldati che ubbidisce senza riflettere. Un esercito che se ne sta a casa aspettando le prossime elezioni per votarlo di nuovo. La cosa incredibile è che per le strade s’è vista tanta gente che diceva di averlo votato e che si chiedeva: “Che diavolo stai facendo Tayyip? Questa è pura follia”.
Ciò che più ha fatto scalpore è stato il silenzio dei media “mainstream”.
Questo è un momento chiave per i media turchi, perché è stata messa in gioco la loro credibilità. Abbiamo assistito tutti alla vergogna di grandi media nazionali che hanno completamente oscurato la repressione poliziesca e che hanno intenzionalmente ignorato ciò che succedeva nelle strade, non diffondendo immagini, in breve non facendo giornalismo. Ma in realtà io dico questo da anni. I media mainstream in Turchia non fanno il proprio mestiere, non raccontano la verità, distorcono la realtà dei fatti, manipolano la gente. E nonostante tutto la gente continua ad avere fiducia in loro. Questa volta però si è capito quanto siano grandi le loro menzogne. I media non hanno fornito informazioni né fatto giornalismo per ben 48 ore! Vergognoso. Poi hanno voluto far credere che tutti questi ragazzi che protestano sono gruppi marginali, addirittura terroristi mentre si tratta di dimostranti, di gente comune, di studenti che cercano solo di difendere un’idea o la loro stessa vita. Adesso però la gente lo ha capito, tutti hanno visto che i media nazionali hanno prima oscurato e poi manipolato la realtà. Ecco perché queste proteste costituiscono un punto di non ritorno per i media in Turchia. Ho visto giornalisti chiedere le dimissioni da Ntv (televisione nazionale turca ndr), o rilasciare dichiarazioni contro i loro capi, anche questa se vogliamo è una forma di rivoluzione. Una cosa del genere prima sarebbe stata impensabile. Spero almeno che quanto accaduto costituisca un’opportunità per ridiscutere la responsabilità e la credibilità dei grandi media nazionali ed al tempo stesso un’opportunità per far entrare di diritto il pubblico, in quanto cittadini responsabili, nel dibattito sui media, anche spegnendo le televisioni o non acquistando certi giornali che nascondono la realtà o la mistificano.
Di fronte al black out dei media c’è stata un’esplosione, un flusso d’informazioni ininterrotto su Twitter e sui social network che hanno di fatto colmato il silenzio dei media nazionali.
Twitter è divenuto un problema per il nostro premier. Visto che i grandi media non hanno garantito alcun tipo di copertura degli eventi in corso, grazie a Twitter la gente almeno si è resa conto di quanto accadeva. Se si vede a quanto accaduto in Egitto durante le rivolte per rovesciare Mubarak, dove secondo uno studio americano solo il 30% dei tweet proveniva dal paese stesso, in Turchia invece, durante le proteste, abbiamo avuto il 90% dei tweet provenienti dalla Turchia di cui la metà dalla sola Istanbul. La maggior parte dei tweet poi condannava apertamente i grandi media ed il loro inspiegabile silenzio. Ho letto decine di tweet che dicevano ai media nazionali: “Vergogna! Dove siete?”. Secondo una ricerca della New York University concernente l’attività su Twitter in Turchia, dalle 4 di pomeriggio fino alla mezzanotte di Venerdì 31 Maggio ci sono stati circa 2 milioni di tweet. Dopo mezzanotte l’average dei tweet concernenti gli eventi era di circa 3.000 ogni minuto! È semplicemente incredibile. Erdoğan, che ha 2,8 milioni di follower e 0 following, non ha detto assolutamente niente su Twitter. E anche questo è incredibile. Se avesse usato Twitter efficacemente, rispondendo alle persone, dicendo la verità su quanto accadeva, se avesse comunicato qualcosa forse le cose avrebbero preso una piega diversa. I suoi “media advisors”, che sono persone specializzate, preparate, hanno fatto un buco nell’acqua enorme. La chiave della protesta è stata dunque il crowdsourcing. Di fronte a tanta manipolazione l’impatto dei social media, con il suo flusso ininterrotto di foto, video, articoli, è stato determinante.