Giovannino Guareschi e una morte per “sospetto fiscale”

Fisco & stato

L’ingerenza del fisco nella vita delle persone è diventata insostenibile, tanto da portare le persone a fare una brutta fine. È quello che pensava Giovannino Guareschi, nel 1956. L’autore della serie di libri su Don Camillo e Peppone, noto per il suo anticomunismo e per l’invenzione di slogan elettorali come «Dio ti vede, Stalin no», era però anche un forte critico della Dc e dei suoi alleati, che a suo dire in economia seguivano una linea socialisteggiante anziché autenticamente liberale, nel solco di Don Sturzo. In quello stesso anno, il primo governo Segni istituisce il ministero delle partecipazioni statali, cominciando l’erapporti dell’intervento pubblico nell’economia. La spesa pubblica aumenta costantemente: dal 1949 al 1955 lo Stato centrale raddoppia le spese e gli enti locali addirittura le triplicano. E per coprirle, si aumentano le tasse.

E in questa temperie che Guareschi ambienta «Il cittadino Demei» pubblicato sul Candido il 21 ottobre 1956. Il protagonista è l’anziano titolare di una piccola impresa la «Carlo Demei & figlio – Antica Fabbrica di aratri, erpici, estirpatori, frangizolle», della quale tiene la contabilità con il solo aiuto del figlio. Un giorno, mentre fuma la sua pipa in ufficio prima di tornare a casa per cena, riceve la visita di «tre forestieri». Che si presentano così:

“Polizia tributaria, dobbiamo fare un’ispezione all’azienda. Avremmo dovuto arrivare molto prima, ma abbiamo avuto un guasto alla macchina, poi abbiamo sbagliato strada.”
Il vecchio Demei si aspettava tutto fuorché una visita del genere
“Si accomodino” balbettò “Facciano pure. L’officina adesso è ferma perché gli operai sono già andati a casa”.
[…]
“Non si scomodi” disse il capo. “Adesso è tardi. Cominceremo l’ispezione domattina”.
Gli altri due si diedero subito da fare: cavarono dalle borse i loro arnesi e rapidamente presero ad appiccicare suggelli a tutti i cassetti della scrivania e della cartelliera e agli sportelli dell’armadio.
Si trattava di funzionari coscienziosi e, perciò, non trascurarono di applicare alle fiancate della cartelliera e dell’armadio dei suggelli che venissero a legare i due mobili al muro cui erano appoggiati. E ciò per evitare che registri e altri documenti amministrativi, trovate chiuse le porte e le finestre, cercassero altre uscite di fortuna.
Il vecchio Demei per un pezzo rimase lì allocchito a guardare: poi si riscosse.
“Noi siamo dei galantuomini” protestò. “Abbiamo carte in regola e niente da nascondere”.
“Noi facciamo esclusivamente il nostro dovere” rispose il capo. “Non è il caso di offendersi perché questa non è una questione di fiducia ma di semplice regolamento. Inoltre, se ci pensa bene, è una garanzia per noi ma anche per lei”.
Quando tutto fu sigillato e verbalizzato, il capo spiegò che, naturalmente, i suggelli non dovevano essere rimossi per nessun motivo.
Dopo questa visita a sorpresa, la cena del vecchio Demei con la moglie e il figlio è molto tesa. Lì, il padre, esprime al figlio il suo parere sulle vessazioni fiscali. All’affermazione del figlio secondo cui i controlli fiscali vengo fatti a tappeto, l’anziano patriarca risponde:
“No” replicò il vecchio. “Questi vanno soltanto dove li mandano. Perché li avranno mandati proprio da me? Chi li avrà mandati?”.
La vecchia intervenne.
“La stessa gente che ti ha mandato quelli della repubblica, poi i tedeschi, poi i partigiani. I soliti falliti che crepano d’invidia e mandano le lettere anonime al fisco come mandavano le lettere anonime ai tedeschi, ai fascisti, agli inglesi, ai partigiani e via discorrendo. E con quale risultato? Sono venuti, hanno capito che sei un galantuomo e se ne sono andati. Succederà così anche con questi”.
“Con questi no” borbottò il vecchio. “Con questi è diversa. Per questi nessuno è galantuomo. Per loro siamo tutti truffatori dello Stato. Se non troveranno niente, diranno semplicemente che sono un furbone che è riuscito a fregarli”.
“Dicano quello che vogliono!” gridò la donna. “Basta avere la coscienza tranquilla”.
“Non basta” affermò il vecchio. “Oggi, si dà più credito alla parola di un farabutto anonimo che a quella di un uomo che ha lavorato onestamente per tutta la vita”.
La discussione si anima e al vecchio Demei il cuore, “il suo spinterogeno delicato” subisce un contraccolpo. Serve subito una puntura. Ma le fiale sono in ufficio. Sigillate. Il patriarca non vuole sentire ragioni. Nessuno deve dare da pensare male ai tre agenti del fisco. Demei si fa consegnare la chiave dell’ufficio.“Per loro sono tutti trucchi… Sono pieni di sospetto persino di fronte alla morte”. Morte che sopraggiunge poco dopo. I tre agenti iniziano l’ispezione il giorno dopo. Non trovano nulla, pur mettendo sottosopra l’intera fabbrica di aratri. Si fermano di fronte alla bara di Demei, biascicando: “Quei fetenti ce l’hanno fatta. La roba che non dovevamo vedere l’hanno nascosta lì dentro”».

Più di cinquant’anni dopo, le verifiche fiscali sarebbero diventate molto più severe e vessatorie. E i Demei d’Italia si sarebbero contate a migliaia.

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