È arrivato nelle librerie “Fine Impero” – Minimum Fax – l’ultimo romanzo di Giuseppe Genna. Si racconta la storia di uno pseudo-scrittore fallito che, dopo la morte della figlia di dieci mesi, in preda a un dolore così forte da cambiargli la struttura del viso, si tuffa nella Milano del circus tv – zeppo di tronisti, modelle e fiumi di droghe – manovrato da Zio Bubba, strambo personaggio che lo trascina a una festa in cui aleggia la presenza di uno sfuggente e decrepito padrone di casa (che assomiglia all’ex premier Berlusconi). Un singolare voyage au bout de la nuit contemporaneo, a metà tra narrazione pura e spunti di critica antropologico-letteraria e filosofico-politica – in cui l’Io romanzesco collassa nella miriade di episodi e immaginari innescati dal proprio tuffo nella più grande deriva splatter del post-moderno.
Anche “Fine Impero” ha un immaginario denso, materico e ipercontaminato: a scegliere un’immagine non letteraria, fa pensare a una crocifissione sospesa a metà tra quelle di Grünewald e Bacon (ma forse più di Grünewald). Tu ne avrai mille altre.
“Fine Impero” è uno strano romanzo, secco e impostato su un basso continuo. Le analogie con la pittura, da un punto di vista meramente personale, sono quelle con i Rothko della Chapel, certi yantra indiani di medio periodo e il “San Sebastiano” di Antonello. Ciò riguarda premesse e esiti e momenti interni della scrittura. Quanto a rappresentazione dell’affollamento compresso di immagini e immaginarii, Grünewald è perfetto, nella sintesi tra luce e carne della “Crocifissione”; oppure, da un punto di vista laicissimo e molto sociologico, il ciclo di Terry Rodgers, “The fluid geometries of Illusions”. I riferimenti espliciti e le citazioni sono tuttavia fuori dalla pittura, richiamano espressioni che vanno dalla fotografia non artistica di Alex Prager ed Erwin Olaf a certi frame di Bill Viola, al “Censimento” di Anselm Kiefer. In ogni caso ciò che mi ha più impegnato nella stesura del romanzo e che richiamo continuativamente è il film “La notte” di Michelangelo Antonioni.
La neonata che muore ha una valenza simbolica che parrebbe evidente, ovvero la morte della purezza e/o della possibilità del nuovo – oppure c’è dell’altro?
No. il libro si rifà a una poetica del trascendimento del simbolico, che in epoca nostrana ha molte manifestazioni, dal teatro di Jerzy Grotowsky alla critica di Peter Szondi; dalla filosofia di Gilles Deleuze alla teoria di Jacques Lacan; dalla scrittura di Don Delillo alla saggistica di Michel Houellebecq; dall’arte di Carsten Höller al cinema di David Lynch. La questione che si dà è sfuggire alla solidificazione del significato simbolico. Il simbolico non lo si traduce, non è una metafora o un’analogia. La bambina è tutt’altro che pura: muore e impone un dolore acutissimo e psichicamente insormontabile. La bambina è innocenza feroce. Inoltre è una bambina e non la Bambina, non può essere un simbolo. Il simbolo manifesta il trascendimento, si tenta di forare il simbolo, la sua immagine cangiante, si tenta di entrare nello spazio a cui esso veicola. Ci si chiede, nel libro, come sia possibile che chi perde i genitori sia “orfano” e chi perde i figli non sia etichettato da una parola specifica – ecco, è quello lo spazio a cui si tende, siamo consapevoli di quello stato eppure non si parla… la parola si sottrae introducendo a una pratica indifferentemente terribile o oscena o gioiosa. Stare nel niente, che non può mai essere niente. C’è un equivoco che si manifesta, evidentemente: la bambina muore e la società prespettacolare pure. Non è quanto intendevo scrivere.
Però sembra un libro in cui ci si occupa di un cadavere, da becchino e da anatomopatologo – o meglio, tutta una serie di cadaveri – la morte aleggia in maniera totalizzante, ma il vero grande defunto sembra essere l’Immaginario, inteso come possibilità di creare/dare vita a nuove visioni, nuovi sogni e quindi, a una vera nuova epoca: il grande scopo del libro è l’annuncio della morte (e il seppellimento) del postmoderno (o del suo soffocante trionfo definitivo)?
No. Esistono immagini di un parto a ciclo continuo, dall’inizio alla fine c’è un’ecografia che sarebbe un annuncio. Il libro è saturo di immaginari, non soltanto storicamente dati. A un certo punto siamo negli anni Settanta, sotto la luce fredda in una cucina piccolo-borghese, quattro umani immobili che mangiano apparentemente senza progressione temporale, nitidi, tutti unificati dal “pasto nudo”, che per William Burroughs era il momento preciso in cui si è consapevoli che la forchetta si avvicina e sta per entrare nella bocca: è un’installazione? Un quadro iperrealista? una narrazione minimalista? E, a proposito di installazioni, c’è un momento in cui il narrante, questo scrittore fallimentare e fallito che è l’avversario poetico del Jep Gambardella de “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, per sopravvivere cerca di spacciare suoi lavori artistici, stanze che raccolgono immagini e luci nere, zodiaci fatti con statue in cera di morfologie umane patologiche – anche questo è immaginario. Non c’è bisogno di certificare artisticamente la supposta morte del supposto Postmoderno: al limite lo fa certa critica, certo giornalismo, certa storiografia. Il paradigma di base in cui cerco di muovermi è la letteratura, o, meglio, la testualità.
In “Dies Irae”, il sistema del terziario avanzato – la società della comunicazione – veniva descritto come una bolla, e il narratore diceva di non essere al passo di questo nuovo decennio. Cos’è cambiato qui? Il protagonista è sempre un outsider afflitto da un incurabile nichilismo di stampo umanista, ma alla fine sembra anche attratto dai salotti-format dello Zio Bubba con i suoi mostri bellissimi, che appare il motore immobile di questa società dello spettacolo putrescente.
Il protagonista è uno scrittore fallimentare e fallito. Vive un immedicabile dolore. Nel primo capitolo porta una piccola bara in cui è custodito il corpo della sua bambina, morta a dieci mesi. In questo dolore acutissimo o basso, comunque continuo, egli si muove in una nebulizzazione di una storia precedente, all’interno della quale è sussunta in micronizzazione anche la cosiddetta Società dello Spettacolo, la quale non esiste più, non ha più la forma che aveva quando essa significava uno dei paradigmi dominanti della vita occidentale. La lingua distorta è afona eppure molto, troppo carica di storia, di emblemi, di possibili analogie. Nel crollo del business e del suo erede, il b2b, nel collasso del digitale e dell’analogico, nell’ipertrofia della chiacchiera diffusa, nella crisi endemica e irreversibile della comunicazione, nell’esplosione degli schermi, appaiono corpi che non sentono di esserlo, psicologie che non sono tali in quanto è venuto meno il paradigma psicologico, emozioni prive di un soggetto unificante, moltissimi “io” a legioni sterminate senza che avvenga una centralizzazione dello sguardo dello “io”. Il protagonista di “Fine Impero” quali libri ha pubblicato? Perché dovremmo considerarlo uno scrittore? Perché ce lo dice lui? E il suo turismo nell’esistente, dolentissimo, è davvero quello del Pontano protagonista de “La notte” di Antonioni, laddove vediamo lo scrittore che presenta il suo libro con Livio Garzanti e Umberto Eco con Antonio Porta gli chiedono l’autografo? E che cosa nasce dal rivolgimento che essenzialmente significa ogni catastrofe? Avevo scritto in passato un libro, “Io Hitler”, per cercare di cogliere fino a che punto esistessero presso di noi le condizioni per parlare di una vittoria postuma di Hitler: eccole realizzate, le condizioni – sono manifeste.
Zio Bubba è chiaramente ispirato a Lele Mora e al suo circus. Pensando anche a Videocracy che ha mostrato il fenomeno su larga scala ma in forma più o meno docu, tu invece lo hai trattato con i crismi dell’“iperrealtà”, caricandolo ancora di più fino a stravolgerlo: non hai temuto quindi che la semplice “datità” della cosa – mostrata dai video e poi dai processi – fosse più efficace?
Non esiste proprio, per quanto mi riguarda, l’idea dell’efficacia, e meno ancora mi interessa la prospettiva sul personaggio. “Io”, il personaggio centrale e illusorio, è miliardi di personaggi. “Videocracy” è molto bello, sociologico, un documentario interessante, l’ultimo sguardo di Silvio Berlusconi alla telecamera di Gandini in mezzo a centinaia di telecamere che egli riesce a centrare tutte, è un emblema notevole. Non è però il ciclo di vita di Lele Mora a interessarmi. In “Fine Impero” mi interessa una modalità mentale dell’imperio, che certo è passata attraverso spettacolo e dominio politico, tra ribaltamento valoriale e oscenità, e che però non si conclude affatto con il tramonto della televisione o con il fatto che al posto del “Drive In” e dei reality arriva “MasterChef”. È uno degli indefiniti “compimenti” della mente occidentale a interessarmi. Lo spalancamento di un’evidenza, soprattutto: la fine dell’interpretazione, in occidente, del mondo come un testo misterioso da decifrare. Lavorare a un testo nella momentanea fine del testo è il punto in questione. Intorno a quel punto si affollano spettri, storie, pixel, echi, motivetti, lottatori e troie: è l’eterna migrazione della specie, che è eterna appunto finché la specie vive.
Esiste una risposta sensata al perché si diventa scrittori? Intanto, il protagonista cita rabbiosamente Kafka e la blatta de “La Metamorfosi” – è un omaggio a quel modo di vivere e praticare la letteratura?
Non ho nulla da dire a questo proposito. Credo che si manifesti un sentimento della lingua, molto precocemente, che incanta e si condensa in immaginazioni e storie, e che spinga per prendere una forma linguistica. Poi avviene del tutto naturalmente che la scrittura, non gli scrittori, porti l’assalto ai limiti estremo dell’umano. Pochi sono i geni che vengono veicolati dalla scrittura a quelle latitudini. Kafka è secondo me tra costoro.
La scena letteraria italiana appare “disrupted” oltre maniera, emerge tutto e il contrario di tutto, l’editoria sembra aver perso la bussola e le librerie come Hoepli e anche Feltrinelli sono in cassa integrazione senza che in apparenza nulla possa cambiare le cose: ha ancora senso parlare del libro e di letteratura – e di un mercato collegato?
Il libro è una cosa, il testo è un’altra, la letteratura un’altra ancora. Per decenni si è stati molto tranquilli, lottando ideologicamente su piattaforme di mercato industriale, declinato in questa formula superficiale: l’industria culturale. Era, come tutti gli stati, uno stato momentaneo. Si trattava di un mecenatismo a plurimo valore, che impulsava autocensure, spettacolarismi, patetismi e sentimenti di gloria. Quel tempo è finito. Finisce, prima che ovunque in occidente, qua in Italia, laddove è un dato antropologico a fare crollare quella piattaforma: gli italiani hanno in odio geneticamente la cultura, l’intellettuale, l’artista – è ciò che Wu Ming 1 chiamava “microfascismo antropologico”. Nessuno, se non pochi, oggi ritiene che la lettura di un libro sia un’esperienza immersiva capace di trasportare nello stato decisivo e interiore in cui si affaccia la domanda di verità e di senso – una domanda che non ha risposta: è impensabile, in quanto inefficace e frustrante, stare oggi in una domanda che rifiuta ogni risposta. Che poi le cose debbano cambiare è un’illusione ottica, a mio avviso: è una richiesta alla realtà che appartiene a paradigmi pregressi, sociologicamente minoritari oggidì. Comunque, le cose cambiano.
Dall’epopea di Clarence alla tua webzine “I Miserabili” fino al wall interattivo con i “cascami” di Fine Impero: il web e l’avvento del digitale li hai vissuto dal principio – com’è cambiata la rete e la produzione di contenuti digitali in questi quasi vent’anni?
Sono rimasto sorpreso dall’accelerazione: oggi è impensabile occuparsi di contenuti. La Rete è il luogo in cui, quanto alle professioni, si realizza il peggiore precariato cognitivo del momento. Da anni c’è Facebook, che ha contribuito all’alfabetizzazione di Rete attraverso la coincidenza tra back-end e front-end, e lì ci si è fermati. Twitter è angosciante, mi sembra di essere costretto a giocare ai videogames degli anni Ottanta mentre c’è il 3d. La retorica della battuta sarcastica, che fuoriesce dall’utilizzo della Rete in questo modo apparentemente ubiquo, è insopportabile e terminalmente enfatizzata da una pubblica opinione morente. Tutti gli sviluppatori sono dietro a fare app, nel Web non si impone da anni qualcosa di nuovo. Il trolling esiste dagli albori della Rete, quando nemmeno c’era il Web, quindi non mi scandalizza. Le quote di attenzione degli individui sono crollate. Gli streaming eiettano icone che hanno vita post-spettacolare per qualche ora. Nessuno ancora si è incaricato di fare arte con questa digitalità, così come pochissimi (penso a Lynch di “Twin Peaks” e a Kieslowski di “Decalogo”) si misero a fare arte con la televisione. Lo sviluppo degli hardware è la traiettoria: entreranno nel corpo e al contempo ci porteranno su Marte. La Rete è un passaggio, pensare che sia un contenitore era errato e sarà sbagliato. Niente di fatale, comunque.
Ti sei sempre occupato di politica anche se incidentalmente: a Roma per il sindaco al ballotaggio ha votato meno del 50% dei cittadini, vale il discorso per la letteratura/editoria o è pure peggio – sembra che ormai stia finendo un’epoca, con i cittadini che hanno abbandonato il capitano – ma chi guiderà la nave?
Quell’epoca è già finita ab initio. Si vota da pochissimo, in realtà. La militanza deve essere continua, condotta con acribia e ossessività. Non mi illudo che, senza strategie e volontà, si possa mantenere eretto il fronte democratico. Quanto alla situazione attuale: manca la sinistra in Italia, non esiste un contenitore realmente socialista, la barca non la guiderà Barca. Tutto ciò, però, non ha a che vedere con la letteratura.