Google piace a tutti. Lo ha decretato un sondaggio telefonico del Washington Post condotto su un campione nazionale di 1007 adulti, tra i diciotto e i sessantacinque anni, a cui è stato chiesto di giudicare “favorevolmente” o “sfavorevolmente” tre titani della Valley: Apple, Facebook e Google.
Fingiamo per un attimo di credere alla rappresentatività di un campione così composto e concentriamoci sull’esito. L’83% degli americani ha una visione “favorevole” di Mountain View, in California, sede di Google, contro il 72% per Apple e il 60% per Facebook, che quindi hanno più detrattori. Google ottiene valutazioni positive di utenti senza distinzione di età, gruppo etnico e ceto. Le uniche critiche provengono dagli over 65, con buona probabilità coloro che non indosseranno mai i Google Glass.
Google piace a tutti, e non c’è bisogno di un sondaggio per capirlo. Occorre solo leggere i modelli imprenditoriali sviluppati in questi anni dalle tre aziende per decifrare l’enorme successo finanziario ed economico di Larry Page e Sergey Brin rispetto ai recenti insuccessi di Apple e Facebook.
Secondo l’Atlantic Apple è passata da una decade di continue innovazioni, iPod (2001), iPhone (2007), iPad (2010), a una normalizzazione: un’azienda tecnologica che produce prodotti di successo ma senza una “Grande Visione”. Oggi Apple è una società in attivo che, oltre a file notturne per l’inaugurazione di nuovi store e un brand tra i più cool del mercato, ha venduto 125 milioni di iPhone generando 80 miliardi di dollari di fatturato e circa 35-40 miliardi di profitti. Ma non stupisce più, non fa sognare. La morte del suo guru è stata anche la morte di un modello di gestione, quello basato sul carisma di un leader geniale sugli investitori. Questa secondo Forbes è la critica più frequente (ma non pertinente) a Tim Cook, il CEO dell’azienda con l’ingrato compito di sostituire il corpo del capo e amico, ovvero: “Non sarà mai Steve Jobs”. Per questo quando Tim Cook parla alla D11 Conference di Los Angeles, il parere di Adam Lashinsky, analista tecnologico e autore di Inside Apple, è negativo e definitivo: «Non ha detto nulla di interessante per ottantun minuti».
Nel frattempo il modello imprenditoriale di Jobs ha avuto così tanto successo che è stato replicato anche dai concorrenti. Il core business di Apple è la produzione di dispositivi: cellulari, iPad e computer, in un mercato che comprende Microsoft, Samsung, e altri giganti pronti alla guerra. Nonostante i pessimi risultati finanziari, però, Apple continua a guadagnare molto, e questo tiene a bada gli investitori, secondo l’Economist, il quale sostiene a buon diritto che i prossimi mesi saranno decisivi per capire se i nuovi prodotti annunciati da Tim Cook per il 2014 si riveleranno rivoluzionari oppure no. Lo capiremo dall’andamento delle azioni.
Wall street odia anche Facebook, ma nessuno sa perché. In borsa la società va molto male e l’obiettivo dell’azienda dalla IPO in poi è stato cercare di monetizzare gli utenti. Al contrario di Apple, Facebook non riesce a capitalizzare l’enorme quantità di informazioni che possiede su di noi e ha disatteso l’annunciata rivoluzione dell’advertising. I tentativi però non mancano. Uno è l’annunciato Graph Search, attualmente allo stadio iniziale, l’altro sono i preannunciati video pubblicitari a rotazione da luglio. La sfida di Zuckerberg è dare alle persone ciò che vogliono. La difficoltà sta nel capire in che modo differenziarsi dall’offerta pubblicitaria calibrata sui gusti dell’utente. Cioè offrire agli investitori ciò che non potrebbero ottenere comprando pacchetti di dati da qualsiasi altra azienda. Anche qui la sfida è anticipare il futuro. Come scrive il Wall Street Journal la società sta sperimentando diversi modi per fare soldi, tra cui un nascente e-commerce e tasse agli utenti per l’invio di messaggi con persone al di fuori della propria rete d’amicizie. Ha inoltre ampliato l’offerta pubblicitaria: annunci su dispositivi mobili, sulla timeline, e la creazione di widget specifici. Basterà?
Google non ha di questi problemi. La società di Mountain View anzitutto non teme concorrenza. Un tempo la conquista del mondo era materia per fiction distopica, oggi è l’annuncio ambizioso con cui si seduce il portafoglio degli investitori e la creatività degli sviluppatori. Sundar Pichai, Senior vice president di Android e Chromes, ovvero due leader di settore, al Google I/O 2013, l’annuale conferenza dove si mettono in risalto i successi dell’anno, ha arringato il pubblico così: «900 milioni di persone usano Android facendone il sistema operativo più utilizzato al mondo. Ma siamo in 7 miliardi, e abbiamo ancora molto da fare». Il pubblico adorante lo ha applaudito. Li ha conquistati. Alle sue spalle la mappa del mondo illuminava le zone asiatiche: «Ora la nostra penetrazione è bassa rispetto all’Occidente, ma è in continua e veloce crescita». Fremono i portafogli dei miliardari: continua e veloce crescita.
Google ha dominato internet negli ultimi dieci anni, ma non le basta. È il modello imprenditoriale occidentale del XXI secolo con una multiproprietà di strumenti. Secondo Moz, Google è ben posizionata in otto aree strategiche in cui la tecnologia si svilupperà nel prossimo decennio: i media, con YouTube; i servizi local, con Google Map, Meteo e prenotazione voli aerei; il mobile, con Android; l’e-commerce, con l’acquisto di Consumer Intelligence per 125 milioni di dollari; gli strumenti di office, come Google Docs, Google Drive e Gmail; il gaming; le piattaforme social con Google Plus.
Ma quello che Google sta offrendo al suo pubblico privilegiato, quello americano, è molto più di una formidabile esibizione di potenza tecnologica.
La presentazione dell’I/O del 15-17 maggio scorso – ma forse ancora più l’assunzione di Ray Kurzweil al termine del 2012 – sono la promessa di un percorso per conservare negli Stati Uniti la leadership non solo scientifica, ma anche culturale ed economica del futuro. Google investe in innovazione capitali che intere nazioni del G8 non possono più permettersi; ma la profusione di forza economica non è tesa solo a stupire, come ormai sembra essere condannata a fare Apple, o ad avvitarsi su un accumulo esponenziale di dati che rimane inerte, come sembra accadere a Facebook. Dietro Google esiste una visione culturale di ampio respiro, che è l’ultima eredità di un Occidente ormai stremato dalla crisi economica.
La bellezza del design e la meraviglia delle interfacce si svuota del suo fascino quando muore con Jobs il vate che ne aveva fatto una promessa di redenzione sociale per i nerd americani, rigenerandoli in geek; i volumi giganteschi di dati non ci distinguono dalle culture in crescita, come quella cinese o russa – dal momento che è l’Asia ad essere quantità, mentre all’Europa è toccato differenziarsi per la qualità, come osservava Valery.
I Google Glass o l’automobile con pilota automatico, sono i sintomi di una volontà di estendere il potere del motore di ricerca dalla dimensione dell’informazione digitale al mondo fisico. Ecco fatto, Google conquista il mondo. Vuole conoscerlo come un’intelligenza umana: Knowledge Graph è la piattaforma di raccordo di tutto quello che il software dovrà sapere sulla realtà concreta. I frammenti dell’innovazione condotta da Google mostrano un piano di knowledge economy in corso, di ampio respiro. L’intelligenza artificiale deve conoscere tutto, perché il sapere è potere, come insegnava Bacone e come comanda il vangelo illuministico.
Ma cosa vuole il potere che sorge da questa intelligenza sempre più estesa e sempre più efficace? Lo spiega Ray Kurzweil, attuale director of engineering a Mountain View. La tecnologia vuole rendere immortale l’uomo, e non nel senso di specie o di civiltà, ma proprio di singolo individuo. Il soggetto, nella sua solitudine indifesa, nell’unicità della sua esperienza, della sua memoria, della sua emotività, è il destinatario della promessa che Descartes ha formulato per la prima volta nel Discorso sul Metodo, consegnandogli un destino di inestinguibilità, di spoliazione da ogni pericolo di eliminazione e di sostituzione. Kurzweil sostiene di averlo calcolato, e che la missione sarà portata a termine attraverso un’integrazione sempre più microscopica tra biologia e nanotecnologie.
Google e Kurzweil non alimentano un delirio o un sogno: interpretano la ragione per cui la tecnologia esiste in Occidente, il suo statuto di scienza e di religione, la sua capacità di rendere la nostra civiltà «l’unica che è sopravvissuta alla morte del suo Dio», come sosteneva De Certeau. L’intelligenza artificiale rende immortale l’individuo e mette in ordine l’universo, ci ricorda Kurzweil: dal maglione che ho perso ma che Google ritroverà avendolo visto con i Google Glass, all’ordine cosmico di tutte le conoscenze. Questa è la promessa che Google intende realizzare, e che rende così affascinante il suo marchio nelle interviste.
Dopo il crollo del welfare, con la crisi del sistema economico europeo e americano, la sfida della crescita cinese, indiana, russa, Google si frappone come un argine a una minaccia orientale che non si limita ad essere finanziaria. La crisi che ci avvolge è quella di una cultura intera che sembra sul punto di crollare. I sistemi asiatici sembrano reggere meglio alle difficoltà internazionali, con i loro modelli che ignorano le esigenze individuali di realizzazione personale e di salvaguardia della salute fisica e psicologica; ma che insieme al significato della libertà soggettiva disprezzano anche i concetti di democrazia e di giustizia che sono stati elaborati dall’Illuminismo europeo.
Con una mano twittiamo la nostra disapprovazione per la raccolta di dati privati online e con l’altra postiamo la nostra vita. Google continua a confortare sulla possibilità di distinguere la civiltà americana da quelle concorrenti nel punto in cui il divario della competizione è più difficile da colmare: la scienza, la tecnologia, la creatività dell’innovazione, la fede nel valore assoluto dell’individuo. Ce n’è abbastanza per comprendere l’ottimismo dell’83% di estimatori di Mountain View. Il fatto che questa fiducia passi sopra la raccolta e l’uso dei dati personali da parte di Google, e che questa indifferenza entri pericolosamente in collisione con l’assolutezza del valore del singolo soggetto, è una contraddizione che in fondo ha molto da dirci sulla nostra visione della democrazia e su quella degli americani. Ma per questo occorrerebbe ben altro che un sondaggio telefonico.
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