Sale a tre il numero delle vittime ufficiali delle proteste in Turchia: nella notte di ieri un giovane di 22 anni è morto durante gli scontri ad Antiochia, nel Sud del Paese. E le manifestazioni continuano in decine di città. Abbiamo raccolto la testimonianza di Deniz S., 28 anni, ricercatrice universitaria di Istanbul, scesa in piazza durante i primi giorni degli scontri.
Quali sono le ragioni profonde di una protesta così forte?
La questione del Gezi Park è stata solo la punta dell’iceberg, ma le tensioni erano già nell’aria. Il 1 maggio scorso la polizia ha impedito una manifestazione a piazza Taksim, le televisioni hanno continuato a censurare episodi gravi come l’esplosione, il mese scorso, di un’autobomba nel sud della Turchia. Ogni due giorni il governo annunciava provvedimenti controversi (basti pensare alle recenti restrizioni sull’alcool, ndr). La gente ha accumulato rabbia e ha iniziato a battersi per la libertà di espressione, la libertà di manifestare liberamente contro il governo, la democrazia. Erdoğan si sta comportando come un dittatore: il suo primo commento è stato: “Andremo avanti qualsiasi cosa facciate”. E poi ha alzato il tiro, aumentando la tensione invece di calmarla. È arrivato a dire: “Posso portare in piazza il 50% della popolazione che ha votato per me”, una minaccia aperta ai manifestanti, una dichiarazione inaccettabile in una democrazia.
Perché gli scontri sono stati da subito così violenti?
In realtà le manifestazioni inizialmente erano pacifiche. Gli appelli per salvare Gezi Park andavano avanti da un anno: poi domenica alcuni ragazzi hanno piantato le tende per dormire lì, occupando l’area per impedire i lavori delle ruspe. E la polizia ha attaccato alle 5 di mattina, usando lacrimogeni sulla gente inerme cercando di disperderla, come fa sempre nelle manifestazioni. Questa volta però la gente non se n’è andata, è rimasta ed è diventata sempre più numerosa: la polizia ha attaccato contando sul silenzio dei media, pensando che la cosa sarebbe finita in poco tempo. Non ha fatto i conti con il tam-tam che è nato in Rete, sui social media, dove la gente ha postato foto e video delle violenze, facendo esplodere la rabbia in tutto il Paese.
Qual è stato il ruolo dei social media e quello dei canali d’informazione ufficiali?
I canali ufficiali non hanno detto nulla fino a sabato notte, domenica mattina. Mentre gli scontri infuriavano a Istanbul, sulle reti nazionali andavano in onda documentari e un concorso di bellezza. I social network e Internet sono stati l’unica forma di informazione. E ora anche il governo se n’è reso conto: cominciano a lavorare anche loro sui social media, diffondono immagini, cercano di minacciare e fanno presa sulla paura della gente.
Si può parlare di “Primavera turca”, accostandola ai moti del 2011 in Nord Africa e Medio Oriente?
Penso che la situazione sia diversa. Non so quello che farà Erdoğan, non penso che cambierà il la sua politica in futuro ma quello che temo davvero è che ci sia un’escalation della violenza che possa portare all’intervento dei militari, da sempre ostili ai partiti islamici, e finora messi in disparte da Erdoğan. Un loro intervento potrebbe destabilizzare il Paese, come è già successo in passato. Per questo l’idea di una “Primavera turca” mi fa paura: ho paura che qualcuno possa appropriarsi di una protesta che è nata dai cittadini e che si è svolta spontaneamente, senza nessuna organizzazione.
Chi sono le persone che stanno scendendo in piazza?
Tutti: studenti, casalinghe, lavoratori. È una manifestazione di tutti, non ci sono partiti o movimenti. Tutti sono lì per la democrazia ed è diventata una battaglia nazionale: non riguarda solo Istanbul o alcune città; in tutto il Paese la gente è scesa in piazza per testimoniare la propria solidarietà ai manifestanti di Piazza Taksim e per condannare la politica autoritaria del governo.