Silvio Berlusconi ha avviato grandi rivolgimenti nel suo partito, il Pdl è di fatto archiviato, cambierà nome, vertici e segretario politico: Angelino Alfano resterà vicepremier del governo Letta ma sarà sostituito alla corte di Palazzo Grazioli molto probabilmente da Daniela Santanchè. Non è chiaro se il nuovo partito del Cavaliere tornerà a chiamarsi Forza Italia, vecchio brand di sicuro impatto. Ma è molto probabile. Mentre restano misteriose le vere ragioni che hanno spinto Berlusconi a questo nuovo colpo di teatro. Il cambio di nome e la nuova constituency non dipendono affatto dal risultato deludente delle amministrative. Si tratta invece di una operazione cosmetica per occultare il declino elettorale del Cavaliere stesso, un maquillage che dovrebbe anche predisporre il centrodestra a mettersi all’opposizione di Enrico Letta qualora i processi dovessero prendere una brutta piega per il capo.
Da alcune settimane è cominciato, martellante, un refrain ispirato direttamente da Arcore: senza Berlusconi non si vince, il partito non funziona, l’unico grande asset strategico del centrodestra è il Cavaliere medesimo. Ma è poi davvero così? Pare di no. La sconfitta di Gianni Alemanno a Roma, e più in generale il 16 a 0 subito a queste ultime amministrative dalla coalizione di centrodestra, sono state – ufficialmente – le cause scatenanti delle grandi novità organizzative che il mondo berlusconiano si prepara ad annunciare. Un nuovo partito, come si diceva, più agile e snello che si consolida soltanto attorno alla figura dell’idolo, la stella elettorale, l’unto nel consenso, l’imbattibile Silvio Berlusconi. «E’ chiaro che solo con lui vinciamo, se lui non c’è il Pdl e il centrodestra perdono», ha detto Daniele Capezzone, l’ex radicale transitato nel Pdl.
Eppure se si vanno a guardare davvero i dati elettorali si scopre tutta un’altra storia che ridimensiona molto i supposti poteri taumaturgici di Berlusconi. Anzi, ribalta il quadro e restituisce l’immagine di un Cavaliere appannato. Il centrodestra coalizzato a Roma attorno a Gianni Alemanno, cioè un sindaco che non aveva dato grande prova di sè, alle ultime comunali ha preso più voti di quanti la coalizione guidata dal Cavaliere non ne avesse presi a Roma alla politiche di febbraio. Non si scappa, sono dati ufficiali e incontestabili del ministero dell’Interno: il 23,43 per cento delle politiche 2013 contro il 31,72 delle amministrative. Non solo. Persino Francesco Storace, il candidato di centrodestra battuto malamente alle regionali 2013 nel Lazio, aveva preso più voti di Berlusconi (28,28 per cento). E lo stesso fenomeno, tra i comuni più numerosi, si riscontra pure a Siena, dove il centrodestra ha guadagnato sei punti percentuali circa. E in generale è un trend diffuso su tutto il territorio nazionale, laddove non abbiano influito speciali dinamiche locali. D’altra parte alle Politiche di febbraio, Berlusconi aveva già perso circa la metà dei suoi voti compiendo tuttavia un miracolo comunicativo favorito dalla propaganda dei suoi giornali e delle sue televisioni e pure dal centrosinistra in cerca di giustificazioni per la propria incapacità di vincere. Il grande successo del Cavaliere è stato quello di far passare una spaventosa debacle elettorale – ha lasciato per strada 6.296.744 voti – per una straordinaria rimonta, una prestidigitazione resa efficace soltanto dall’inettitudine del Pd guidato da Pier Luigi Bersani.
Risultati nelle diverse elezioni del 2013 nel Comune di Roma
E insomma si insinua così un dubbio velenoso che riguarda la vera ragione delle grandi manovre, delle nuove strategie di marketing creativo, che agitano il centrodestra del Cavaliere. Intanto perché sembra che il problema del Pdl non sia il Pdl in sé, ma il suo grande e celebrato leader che, battuto persino da Alemanno e Storace, per l’elettorato non è più così attrattivo come un tempo. E dunque perché cambiare tutto? I rivolgimenti interni, compresa la sostituzione di Alfano con Santanchè, servono soprattutto a legare indissolubilmente il grande capo alla sua creatura e completano una separazione strategica tra il partito e il governo di grande coalizione in vista della data fatidica del 19 giugno, quando la Corte costituzionale dovrà decidere se Berlusconi aveva diritto o meno al legittimo impedimento nel caso Mediaset. Se la corte dovesse dargli ragione quel processo si avvia inesorabilmente verso la prescrizione. Ma se la corte suprema dovesse dargli torto, allora lo scenario cambia e il nuovo partito guidato dai falchi, Denis Verdini, Daniele Capezzone e Daniela Santanchè diventerà un agitato elemento di destabilizzazione del quadro politico. D’altra parte il Cavaliere, che riconosce il proprio declino elettorale, lo dice ormai chiaro ai suoi collaboratori: «Se non avessi i processi, mi sarei già ritirato dalla politica…».