Si chiama Saad Tarazi, è nato 33 anni fa in Palestina e da nove vive in Italia. Quattro anni fa ha chiesto la cittadinanza italiana, ma non ha mai ricevuto il via libera. E nel frattempo non può lasciare il nostro Paese, né per andare a lavorare in Svizzera (dove c’è un’azienda che vorrebbe assumerlo come orafo) né per andare a far visita ai suoi genitori che vivono in Australia e che non vede dal 2004. Il motivo è il suo status di rifugiato politico. E questa è una delle storie di ordinaria follia della burocrazia italiana.
Il tutto ha inizio nel 2004, quando Saad, di religione cristiana (chiesa greco-ortodossa), lascia la Palestina. «Per motivi di studio», spiega lui, che parla ormai un italiano quasi perfetto. Ottiene il permesso di soggiorno e si iscrive al corso in Scienze e tecnologie orafe dell’Università Bicocca di Milano. Dopo la laurea, arriva il master in Ingegneria al Politecnico di Torino. In questi anni, paga le tasse universitarie dalla prima all’ultima e si mantiene grazie al lavoro di guardiano notturno di una struttura per studenti di Lissone (Monza).
Un curriculum di tutto rispetto, il suo («anche se», scherza, «non mi sono laureato con il massimo dei voti, l’università italiana è molto difficile»), che gli permette di scrivere sulle maggiori riviste scientifiche, anche internazionali. E la sua conoscenza dell’arabo, dell’inglese e dell’italiano gli avrebbe aperto le porte di una brillante carriera. Ma non in Italia.
Tra corsi, ricorsi, documentazioni e scartoffie, Saad resta intrappolato in un calvario burocratico. «Nel 2008 ho chiesto e ottenuto lo status di rifugiato politico», racconta. I motivi sono sia religiosi sia politici. «In Palestina ero impegnato in politica», dice, anche se preferisce non parlare delle ragioni che lo tengono lontano dalla sua terra d’origine. Dopo due anni, arriva il momento di chiedere anche la cittadinanza italiana. Ma «a un anno dalla domanda mi dicono che per concedere la cittadinanza non si tiene conto da quanti anni sono in Italia, cioè dal 2004, ma dalla data in cui ho ricevuto lo status di rifugiato politico, cioè dal novembre 2008, e solo da questa data partono i cinque anni dopo i quali viene concessa la cittadinanza». Saad non si perde d’animo, fa ricorso al Tar, vince e invia tutti i documenti alla prefettura di Milano. Era l’aprile del 2012, ma ancora non ha ricevuto risposta.
Nel frattempo, come farebbe qualsiasi ragazzo neolaureato, Saad manda il suo curriculum a destra e a manca, anche all’estero. Gli risponde un’importante azienda orafa del Canton Ticino, in Svizzera. «Vado a fare il colloquio e in poco tempo mi fanno sapere che ero assunto», dice. Poco dopo, però, deve fare i conti con la realtà: «Mi arriva una comunicazione in cui mi si dice che il mio status di rifugiato politico è incompatibile con la normativa dell’ufficio svizzero di immigrazione. Se avessi la cittadinanza italiana, invece, potrei lavorare come “frontaliero”. Come rifugiato non posso lavorare in nessun altro Paese europeo. E anche le aziende italiane, quando sanno che non mi possono inviare fuori dall’Italia, mi scartano. La mia professione è molto richiesta all’estero. Ma senza cittadinanza non posso spostarmi». Non solo. «I miei genitori vivono in Australia», racconta, «anche loro sono rifugiati. Ma non avendo avuto ancora la cittadinanza, non posso andare a trovarli. Non li vedo dal 2004».
In attesa che qualcosa si muova, Saad si divide tra il lavoro di guardiano notturno e quello di mediatore culturale a Lissone. Un lavoro «interessante», dice, ma di certo con uno stipendio più basso di quello che avrebbe avuto in Svizzera.
In tutti questi anni ha chiesto l’attenzione delle principali cariche politiche italiane. «Prima ho mandato una lettera a Gianfranco Fini, che mi ha risposto dicendo che non poteva far niente. Di recente ho mandato la stessa lettera a Boldrini. Mi è arrivata una risposta copia e incolla di quella di Fini in cui cambia solo la firma». Della questione si è interessato anche il sindaco di Lissone, Concettina Monguzzi, che nel 2012 ha scritto al Presidente della Repubblica, vedendosi respingere la richiesta «perché il Presidente non si occupa di queste cose». Finché «un giorno mi chiamano dall’ufficio del ministro Andrea Riccardi (ex ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione, ndr) e mi dicono che il mio caso è molto difficile e che se fossi stato uno scrittore, un calciatore o comunque un personaggio famoso, sarei riuscito a smuovere qualcosa e a ottenere la cittadinanza italiana». L’ultima a essere interpellata è stata la ministra Cécile Kyenge. «Le ho mandato la lettera, mi è arrivata la conferma che è stata ricevuta, ora aspetto la risposta».
Per il momento tutto sembra fermo. Con l’aiuto del suo avvocato, l’orafo palestinese ha fatto un nuovo ricorso al Tar del Lazio. Saad, che ormai si è abituato ai tempi della burocrazia italiana, dice: «Tra la sentenza del Tar, la comunicazione al ministero e la risposta, passeranno altri quattro anni, anche se i cinque anni per ottenere la cittadinanza li otterrò a fine ottobre. Altri quattro anni buttati. Così mi sento bloccato». Ottenere i requisiti per la cittadinanza non metterà la parola fine a questo labirinto burocratico. E per questo Saad lancia un appello: «Chiedo a Laura Boldrini e al ministro Cécile Kyenge di incontrarmi, voglio raccontar loro la mia storia».