È toccato di nuovo alla polizia di Nuova Delhi scoperchiare l’ennesimo scandalo, stavolta andando a colpire lo Sport con la esse maiuscola, quel cricket che in India gode di un seguito senza eguali nel mondo, al limite – se non oltre – la mania malsana.
I giornali e telegiornali riprendono il copione dell’indignazione, amplificando l’onda d’urto di un illecito che sarebbe per ora, tutto sommato economicamente contenuto, ma di grande impatto sull’opinione pubblica. Niente aste per licenze telefoniche truccate o appalti carboniferi pilotati – gli ultimi due scandali costati a Nuova Delhi miliardi di euro – bensì partite truccate, giocatori che in accordo con bookmaker si intascano parte delle scommesse illegali per giocare al di sotto delle loro possibilità.
A metà maggio tre giocatori di cricket della squadra dei Rajasthan Royals, una delle otto che partecipano all’Indian Premier League (IPL) – torneo nazionale arrivato quest’anno alla sesta edizione – vengono arrestati con l’accusa di essersi venduti una serie di match. Dei tre la stampa si accanisce in particolare su S. Sreesanth, lanciatore proveniente dallo stato meridionale del Kerala, identificandolo come il simbolo della corruzione morale del nobile gioco ereditato dai colonizzatori inglesi. Recentemente, grazie all’aiuto di un amico di Sreesanth, le autorità hanno trovato e confiscato 5,5 lakh in contanti (7500 euro), parte dei 10 lakh pagati dai bookmaker al giocatore del Kerala per fargli sbagliare qualche lancio durante un match.
Lo scandalo si è poi allargato a macchia d’olio, coinvolgendo una serie di personaggi di primo piano del jet-set indiano. La polizia di Mumbai ha arrestato anche G. Meiyappan, dirigente dei Chennai Super Kings, che assieme all’attore Vindoo Dara Singh – precedentemente interrogato – pare si dilettasse a scommettere sulle partite della IPL. Ad aggravare il tutto, il legame con N. Srinivasan, presidente del Board of Control for Cricket in India (BCCI), che di Meiyappan è il suocero, l’uomo a capo della potentissima società che regola e gestisce l’universo del campionato di cricket indiano: merchandising, pubblicità, diritti tv, sviluppo infrastrutture sportive. Giro d’affari: 160 milioni di dollari nella stagione 2010-11.
Intervista al fondatore della IPL, la lega indiana di cricket, Lalit Modi
Partita dei Rajasthan Royals, di cui tre giocatori sono coinvolti nello scandalo
Mentre l’apertura del vaso di Pandora ha scatenato la lotta intestina tra fazioni all’interno del BCCI per far fuori il presidente Srinivasan – che è incidentalmente anche il proprietario di India Cements, colosso dell’edilizia del subcontinente, costretto a lasciare il posto controvoglia lo scorso 2 giugno – alcuni riflettono sulla base su cui si poggia il giro di scommesse illegali, ovvero l’illegalità stessa del fenomeno. In India è vietato scommettere su qualsiasi evento sportivo che non siano le corse dei cavalli – passione non precisamente di respiro nazional-popolare – e in generale il gioco d’azzardo è fortemente stigmatizzato: anche solo comprarsi un biglietto della lotteria è giudicata attività di cui non andar fieri, al pari del bere alcol o fumare; una cosa legale ma non lecita.
La Federation of Indian Chambers of Commerce and Industry (la Camera di commercio indiana, Ficci) ha compilato e sottoposto al Ministero dello Sport un rapporto in cui avanza – e non è la prima volta – la proposta di legalizzare le scommesse sportive «come in molti Paesi occidentali». Il ragionamento non fa una grinza. Secondo la Ficci, la politica del divieto non produce alcun risultato. Anzi, lo Stato, destinando risorse per le attività di contrasto alle scommesse illegali, ci perde pure. Sarebbe quindi ora di «legalizzare e regolamentare le scommesse», anche perché la mole di denaro che gira intorno ai bookmaker illegali inizia ad ingolosire anche i giocatori professionisti, minando la purezza della competizione sportiva.
Dati alla mano, ogni anno le scommesse illegali in India muovono qualcosa come 300mila crore (41 miliardi di euro). Con la legalizzazione, il governo potrebbe guadagnare in tasse tra i 12mila e i 19mila crore all’anno (1,7 e 2,6 miliardi di euro), una cifra che il quotidiano Hindustan Times ha descritto come «sufficiente» per sostenere i costi annuali dell’intero sistema dell’educazione indiano.
La proposta è ora al vaglio del Ministero della Giustizia, chiamato a pesare pro e contro della potenziale riforma: da un lato, ricondurre ad un regime di controllo un’impressionante quantità di transazioni illegali e ricavarne un profitto da reinvestire nella Cosa Pubblica; dall’altro, arrendersi di fronte all’immoralità dei costumi indiani, piegandosi a rivedere una pratica considerata disdicevole dall’India per bene e perbenista. Per la classe dirigente indiana, innamorata e maestra nell’arte dell’apparire, una scelta davvero ardua.