FIRENZE – Appare di buon umore, Dan Brown. Risponde tranquillo, non si scompone, scherza con leggerezza. Pare, a vedere da come si comporta, perfino umile. Insomma, è il caso raro in cui l’autore sembra meglio dei libri che scrive. Certo, buon carattere a parte, lo aiuta anche la (bassa) qualità dei suoi bestseller. Se si parla di lui, si sa, il giudizio è unanime ed è negativo. Da quando nel 2003 è uscito Il Codice da Vinci, è stato bersaglio di critiche durissime dal mondo dei “letterati”: cattiva scrittura, trama sconclusionata, invenzioni storiche, incoerenze narrative. E più lo si attaccava, e più lui vendeva. Poi sono arrivati i 190 milioni di copie vendute, i film tratti dai suoi libri, il successo definitivo. Anche l’ultima fatica, Inferno, uscita a metà maggio, ha già venduto, solo in Italia, 800mila copie. Aveva ragione lui?
Domanda sbagliata. «Dipende tutto dal gusto. Io scrivo cose che piacciono a me, non mi faccio condizionare». Che poi il pubblico gli dia ragione non lo frena di sicuro. «Non posso scrivere libri che vanno bene a tutti, anche se questo è il sogno di ogni scrittore. Ci sarà sempre qualcuno che li criticherà. Ognuno legge quello che preferisce, e per ognuno esistono libri adatti». E allora aggiunge, con un filo di veleno, «che mi rende molto orgoglioso pensare che, grazie ai miei libri, editori come la Mondadori possano stampare e vendere anche libri che non farebbero i miei numeri». E così chiude la questione.
Non del tutto, in realtà. Le critiche restano, e non ne è immune (come era ovvio) nemmeno Inferno, che Dan Brown ha presentato a Firenze lo scorso 5 giugno, nel Palazzo Vecchio in piazza della Signoria. «Per me questo libro è un omaggio alla città e alla sua storia, oltre che a Dante Alighieri». Educazione e cortesie a parte, gran parte della storia è ambientata in Italia (tra Firenze e Venezia). E proprio Palazzo Vecchio è uno dei luoghi in cui si svolge l’azione, tra scoperte inquietanti e inseguimenti pericolosi. Il solito canovaccio browniano, sembrerebbe. Ma in realtà, a guardarlo da vicino, le cose sono un filo più complicate.
Quelli di Dan Brown, va ricordato, sono page-turner ben studiati: strutturati per far voltar pagina, in un saliscendi di suspence e distensione. Danno, per definizione, quello che il lettore si aspetta: avventure ed evasione. Lui, dal suo punto di vista, declina questa formula facendola snodare attraverso misteri antichi, leggende, segreti, e scenari più o meno esotici. Non solo: visto il successo, crea una serialità anche tra i diversi libri, riproponendo lo stesso personaggio: il professor Robert Langdon, docente di simbologia (cattedra inesistente) a Harvard. Il suo compito è, di romanzo in romanzo, interpretare piste di segni misteriosi che conducono a salvare il mondo. Bene.
Inferno non si sottrae. Si ispira, come suggerisce il titolo, alla Divina Commedia di Dante (il poeta fiorentino, di fatto, è uno dei protagonisti), schiera in campo ancora Langdon (stavolta accompagnato dall’ineffabile Sienna Brooks, supercervellona dalle mille pieghe) e mescola il problema attuale della sovrappopolazione alla storia dantesca, in un mix fantasioso di realtà e licenze, più o meno poetiche. Dallo stile alla trama, sono infiniti gli appunti che si possono muovere a questo libro per stroncarlo. Farlo, però (oltre che un esercizio presuntuoso) sarebbe quasi inutile. Non tanto perché la mole di libri venduti resta impressionante, ma perché, in nessun caso, si impedirebbe a lui di scriverne altri e ai lettori di comprarli. Alcune osservazioni, però, meritano di essere considerate. Anche solo perché mettono in luce alcuni aspetti interessanti del libro.
Uno dei primi problemi, allora, è l’effetto “guida turistica”. Il libro abbonda di descrizioni, precise fino al dettaglio, con cui tratteggia luoghi e personaggi storici. La sensazione è, spesso, di trovarsi di fronte a pagine enciclopediche o a sunti del Touring Club. Firenze è «la città nelle cui strade Michelangelo aveva giocato da bambino e dove era nato il Rinascimento italiano. Firenze, le cui gallerie e pinacoteche richiamavano milioni di visitatori per ammirare la Nascita di Venere di Botticelli […]» (pag. 44). Oppure: «Viale Niccolò Machiavelli è stato definito la strada più bella di Firenze. Con le sue ampie curve a S che si snodano serpeggiando in un panorama lussureggiante fra siepi e alberi, è tra i percorsi preferiti dei ciclisti e degli appassionati delle Ferrari». È «la zona più elegante di Oltrarno» (pag. 95). E ancora, a pagina 255: «Nota come la “chiesa di Dante”, Santa Margherita dei Cerchi è più una cappella che una chiesa. Il piccolo luogo di culto è una meta fissa per gli appassionati di Dante, che la venerano come la terra santa in cui sono avvenuti due episodi cruciali nella vita del grande poeta», e parte così la «leggenda». Sono tre esempi a campione, ma si potrebbe continuare a piacimento.
Per Dan Brown dev’essere una questione di imprinting. «Per descrivere questi luoghi – spiega – mi sono basato su esperienze che ho vissuto di persona, visitando la città come un turista». Si tratta di descrizioni agili: non rallentano la lettura e, soprattutto, forniscono informazioni precise mescolate a leggende suggestive. Proprio come deve saper fare una guida abile. La sensazione – e non è un punto secondario – è di fare un viaggio insieme al protagonista. Non si lascia nulla al caso; al contrario, si cerca di dare un’immagine chiara e vivida dei posti in cui si svolge l’avventura.
«La mia è un’esigenza di realismo: cerco sempre di inserire dati autentici, sperimentati in prima persona», aggiunge. Anche questo è vero: ma la sensazione è un’altra: cioè che la ricerca spasmodica del particolare significhi non voler lasciare nulla all’immaginazione del lettore, che non deve distrarsi. E, soprattutto, deriva da un’esigenza ineludibile: rendere verosimile una storia del tutto improbabile. Venezia è piena, com’è ovvio, di turisti; da Firenze ci si arriva in Frecciabianca (e ci si mette due ore); si citano i “famosi” piccioni (famoso, del resto, è un aggettivo che ricorre senza pari in tutto il libro – e anche questo non è un caso). Anche parlare del sito TheFlorentine.net, cui si collega Langdon per avere informazioni su Firenze, riflette questa tendenza: il dettaglio dev’essere realistico e vicino al vissuto del lettore (soprattutto, del lettore americano). Senza queste precisazioni il thriller ad alta tensione si trasformerebbe, in un istante, in un fantasy.
Il problema è che, spesso, la nota di realismo scivola nella pubblicità, o in qualcosa che le somiglia parecchio. Il product placement, se intenzionale, è sfacciato. Nel romanzo abbondano iPhone e iPod. Langdon indossa una giacca Harris Tweed, e in Italia si procura un completo Brioni. Si ubriaca con un Nebbiolo Gaja e offre una bottiglia di minerale San Pellegrino. Viaggia su una Fiat e, per volare, chiede un aereo al servizio Netjets. A meno che Dan Brown si diverta a rendere omaggio a prodotti e servizi che apprezza in modo particolare, il sospetto (non confermato, sia chiaro) dell’accordo commerciale è dietro l’angolo. In ogni caso, il fine primario è raggiunto: colorare, in ogni modo, di realismo la storia. Anche perché, chi viaggia insieme a Robert Langdon per le pagine del libro, deve avere punti di riferimento anche per quello che riguarda lo shopping.
Nonostante l’inverosimiglianza degli eventi raccontati, la narrazione procede serrata e compresa in un arco di 24 ore. Non si tratta qui, come aveva pensato qualcuno, di un insolito e inaspettato riutilizzo dell’antica unità di tempo aristotelica (anche perché, spostandosi in tre città diverse, manca l’unità di spazio). Ma di «una sfida che cerco di fare con me stesso. Concentrando la storia in un periodo brevissimo, concatenando i fatti in modo originale e cercando soluzioni nuove». Anche perché, teorizza, «la fiction è come la realtà senza i momenti noiosi». E allora, tolti quelli, si crea un libro già perfetto per una sua futura trasposizione cinematografica (ricca di inseguimenti e colpi di scena). Non a caso, dice, «alla Sony sono già entusiasti dell’idea. Spero che lo sia anche la città di Firenze», che ne sarà principale location. Con Renzi ne doveva ancora parlare. Quanto agli attori, «mi piacerebbe che ci fosse anche Roberto Benigni, che ho guardato tantissimo su Youtube», lusinga.
In ogni caso, lo schema alla base è, all’apparenza, classicissimo: lo scienziato pazzo che vuol distruggere il mondo e l’eroe buono che cerca di sventare il suo piano. Dan Brown, però, vi costruisce variazioni. Il tocco fortunato è nel ritmo dei colpi di scena, che complicano lo svolgersi della storia e mutano, in corsa, le prospettive. Si intuisce come andrà a finire (siamo sicuri che si intuisca davvero?), senza che se ne veda mai una strada sicura.
Il punto è che (non volendo rivelare il finale), quando si chiude il libro la visione retrospettiva degli eventi appare ridimensionata. L’urgenza e l’allarme che percorrono tutto il libro diventano ingiustificati: si svuota di senso il romanzo e, di fatto, sgonfia la tensione. Il lettore scoprirà di aver percorso, più che una missione, l’itinerario di una vacanza, forse un po’ rischiosa
Resta allora la spasmodica cura per i dettagli, la ricerca assoluta del realismo. Se quello che resta è, come detto, il senso della vacanza, Dan Brown vuole a tutti i costi comunicare le impressioni, vivide, di un viaggio, ispirandosi (come riconosce lui stesso) ai suoi giri da turista. Forse è proprio per questo che si parla di evasione. Ma è qualcosa di meno, di diverso. Dan Brown riconsegna il lettore alla realtà (non quella parallela creata da lui) nelle ultime pagine, non dopo. Cioè prima che si chiuda il libro. Svegliarsi dal sogno della lettura è graduale.
E allora sembra che, nonostante tutto, prevalga un disincanto profondo: nei confronti della storia, della formula, del genere stesso. Con Inferno, insomma, il viaggio non è concluso, l’evasione non è concessa fino in fondo. Sembra che sia tempo di guardare senza fuggire la realtà. «Perché il futuro ci terrorizza», spiega. Si chiude il libro e ritorna a veder le stelle, che sono quelle di sempre.