Bussola cineseInternazionalizzarsi per creare lavoro anche in Italia

Il futuro del made in Italy

Partiamo dall’ultima notizia di cronaca che può essere presa da esempio: “Natuzzi in crisi, 1900 lavoratori in bilico, causa bassa produttività e mercato in decrescita”. Purtroppo la realtà è che i lavoratori pagano scelte improvvisate e i fatti confutano chi pensa che l’unica soluzione, per guadagnare in competitività, sia chiudere l’azienda in Italia per spostarsi all’estero.

La competitività non dipende solo dai lavoratori, ma da una strategia globale che diversifichi i mercati e ricollochi eventualmente le risorse in Italia in diverse funzioni. Il costo del lavoro in Italia è tra i più bassi in Europa, il problema resta la pressione fiscale irrazionale. Se questo è un aspetto che accusa la politica che ha fatto ben poco su questo tema, piuttosto ha creato danni, l’impresa non ha mai veramente investito nei giovani e nella valorizzazione delle risorse senior, gli ultra cinquantenni invece così richiesti e visti come risorsa nel nord Europa. Se poi aggiungiamo allo scenario l’incapacità del sistema bancario a sostenere l’economia reale, la crisi strutturale che ci affligge è spiegata, almeno in parte.

Quello che manca all’Italia è una visione di sistema a medio lungo termine e le necessarie competenze per capire come si sta evolvendo il mondo. L’Italia deve mantenere e valorizzare il proprio patrimonio produttivo, ma questo vuole dire evolvere, trasformarsi. Competere con produzioni di massa e di base, come quelle che si trovano in Cina e nei paesi in via di sviluppo, è una battaglia persa in partenza ed anacronistica. Il mondo non sarà più come quello di prima semplicemente perché è cambiato, le masse di popolazioni che cercano di usufruire di prodotti che una volta erano solo alla nostra portata, hanno diritto di trovare risposte nel loro paese, ma noi dobbiamo svegliarci perché l’Italia ha bisogno di un nuovo rinascimento.

Le opportunità presenti nei paesi a più intenso sviluppo non sono solo quelli che compongono i BRIC, ma anche tanti altri come la Birmania, il Perù, il Cile, l’Arabia Saudita, e così via, paesi che rappresentano una miniera di opportunità che restano inesplorate a pieno da parte delle nostre aziende proprio per la mancanza di visione e di strategia che ci contraddistingue. Eppure c’è ancora chi critica in Italia gli investimenti all’estero, chi vorrebbe mantenere lo status quo, portando come argomento il possibile effetto negativo sulle attività economiche e sull’occupazione a casa nostra rispetto agli investimenti esteri di capitali da parte delle nostre imprese.

La Commissione europea (DG Commercio) nel 2010 ha commissionato al Copenhagen Economics ( lavoro condotto da Eva R. Sunesen, Svend T. Jespersen e Martin H. Thellea) di valutare l’impatto degli investimenti esteri diretti dell’Unione europea verso l’esterno (FDI) in competitività delle imprese dell’UE e sui mercati del lavoro europei. I risultati della relazione, che sono sempre attuali, si sono basati su un’indagine dettagliata sull’impatto degli IED sulla competitività e occupazione delle imprese dell’UE. Il lavoro si è basato su un sondaggio compiuto da Eurostat condotto in 12 paesi UE.

Dall’analisi dei dati e dalle storie di centinaia di aziende europee, gli investimenti verso paesi extra UE non hanno un chiaro impatto negativo sull’occupazione, ma, se gestiti nella maniera giusta, al contrario, sembrano avere un effetto neutro, se non positivo in patria, sulla forza lavoro impiegata nelle aziende europee. Generalmente le possibili conseguenze negative sono controbilanciate dai benefici derivanti dall’acquisizione di una maggiore competitività e da un più ampio accesso a nuovi mercati esteri. L’espansione in paesi stranieri può portare a un’evoluzione strutturale della casa madree alla creazione di economie di scala.

Esiste l’idea generalizzata che gli investimenti verso l’estero possano causare una perdita massiccia di posti di lavoro nel proprio paese, basata sul confronto tra numero di posti di lavoro trasferiti all’estero e posti persi nella casa madre. Nell’insieme, non si tiene però conto della creazione di nuovi posti di lavoro e nuove posizioni all’interno dell’azienda in patria né tantomeno non si considera la situazione che si viene a creare all’interno di quelle aziende che invece non investono all’estero. In quest’ultimo caso, nel corso del tempo, la diminuzione della competitività come conseguenza del mancato investimento può essere la causa di un calo ancora maggiore di occupazione, a volte anche repentina. Ed è quello che sta accadendo in Italia, e guarda caso proprio in quei paesi che hanno una bassa vocazione espansiva verso nuovi mercati o dove il tessuto industriale è parcellizzato in una miriade di piccole aziende che da sole eccellono, ma non hanno la forza di strutturarsi stabilmente nei paesi a più alto tasso di crescita, dove i mercati li accoglierebbero molto bene se avessero la forza di esservi presente.

In base ai dati dell’European Restructuring Monitor, l’effetto negativo di operazioni di outsourcing in termini di perdita di posti di lavoro è minore rispetto alla riduzione degli stessi dovuta alle ristrutturazioni interne intraprese dalle società in caso di crisi strutturale.

Tabella 1. La perdita dei posti di lavoro dovuta alle ristrutturazioni effettuate dalle aziende dell’Unione Europea tra il 2002 e il 2004

Fonte:European Restructuring Monitor, 2004

Le società europee investono all’estero con l’obiettivo di rimanere competitive, quindi gli investimenti diretti verso l’estero possono potenzialmente salvare posti di lavoro all’interno delle imprese e dei settori che più risentono della crescente competizione internazionale.

Gli investimenti hanno un impatto redistributivo sull’occupazione e sulla struttura delle competenze professionali nelle compagnie che si espandono all’estero, portando a un miglioramento delle condizioni dei lavoratori qualificati relativamente a quelli non qualificati: quando una società importa beni intermedi o costituisce un’entità all’estero, ciò ha un impatto positivo sulla forza lavoro qualificata in termini sia di aumento del numero di posti di lavoro, delle competenze che in precedenza non esistevano, sia di aumento del salario.

L’outsourcing ha prodotto una crescente diseguaglianza tra forza lavoro qualificata e non qualificata, soprattutto per quanto riguarda il salario. Tuttavia, dobbiamo considerare che l’alternativa agli investimenti esteri può essere non investire per niente, però questo porterà inevitabilmente alla conseguente diminuzione di competitività e alla maggiore probabilità di perdita di posti di lavoro e alla crisi.

L’impatto sui lavoratori qualificati e non, all’interno della casa madre, dipende dal paese in cui si costituisce una branch: se s’investe in paesi sviluppati, la forza lavoro qualificata risente della competizione da parte della forza lavoro all’interno della branch, mentre se s’investe in un paese in via di sviluppo (che presentano un vantaggio comparato in termini di costo del lavoro), sono i lavoratori non qualificati ad essere influenzati. I lavoratori le cui posizioni sono state trasferite all’estero potrebbero perdere il lavoro, ma l’investimento può creare nuove posizioni o nuove funzioni nel medio termine.

Dunque gli investimenti all’estero possono portare nel breve termine alla perdita di alcuni posti di lavoro, ma ormai questi investimenti rappresentano una scelta obbligata per molte imprese se non vogliono soccombere, ma se fatti in maniera oculata, l’impatto sulla occupazione potrà essere mitigato da scelte di ricollocazione e di riqualificazione.

In molti casi è presente un effetto spillover positivo sulle imprese dello stesso Paese, dovuto alla diffusione di migliori tecniche decisionali e a un’immagine più attrattiva del proprio Paese nei mercati stranieri. Nello specifico, l’impatto sulla produttività della costituzione di una branch all’estero è positivo perché questo tipo d’investimento offre la possibilità di raggiungere economie di scala, aumentare i profitti derivanti dall’espansione del proprio mercato di riferimento e costruire relazioni più forti con i clienti locali.

Tuttavia, gli effetti positivi citati non si materializzano nell’immediato e l’internazionalizzazione comporta dei costi relativamente alti. In generale, gli Investimenti Diretti Esteri verso altri paesi, accresce la competitività delle imprese manifatturiere, specialmente quando permettono l’accesso a nuovi mercati, tecnologie e know how.

L’out flow totale d’investimenti diretti italiani all’estero, indipendentemente dall’area geografica di destinazione, è quindi molto limitato rispetto ad altri Paesi dell’area Euro (Germania, Francia, Paesi Bassi per esempio). Quello che si registra è che le imprese Italiane, date le caratteristiche delle piccole dimensioni delle nostre PMI, preferiscano un modello snello basato più sul commercio piuttosto che sull’investimento diretto.

È bene ricordare, tuttavia, che gli investimenti all’estero ed esportazioni sono sostituti solamente quando i numeri sono bassi (spesso ciò accade quando il mercato nell’area che è stata oggetto d’investimento è ancora nelle fasi iniziali), mentre, quando il business ha raggiunto un certo livello di sviluppo, la necessità di investire aumenta e, parallelamente anche le esportazioni verso quell’area ne trarranno beneficio.

Leggi la seconda parte dell’analisi di Saro Capozzoli.

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