I soci della Giovanni Agnelli sapa, società in accomandita per azioni, si sono riuniti giovedì e venerdì a Maranello (non Marentino questa volta). Gita in Ferrari per una cinquantina di rentier che vivono con i dividendi del gruppo finanziario industriale presieduto dall’erede designato John Elkann e gestito da Sergio Marchionne. La famiglia è stata informata di quel che sta accadendo, magari non tutti i particolari ma l’essenziale. Ha appreso che lo storico nome Fiat è in via di estinzione. Le macchine industriali, sistemate tra Londra e Amsterdam, dopo la fusione tra Fiat industrial e Cnh (Case New Hollande) perderanno l’acronimo Fiat. L’auto fra un anno, se tutto va bene, si chiamerà Chrysler. E quel che resta della più grande dinastia industriale italiana diventerà l’archetipo di come Karl Marx s’immaginava il capitalismo: senza patria, senza radici, senza una base materiale, la transustanziazione di un rapporto sociale, un’epitome monetaria.
Elkann, tuttavia, non vuole trasformarsi in un ectoplasma (così la economista Joan Robinson definì il capitale finanziario) circolante nell’economia globale. Per il suo futuro s’immagina qualcosa di diverso. «Jaki ha maturato una vera passione per l’editoria», ha confessato il padre, Alain, a un amico, ma non è altro che una conferma. Chi ha seguito le mosse dell’erede Agnelli nell’ultimo anno ne è convinto da tempo. Garantito il controllo sul gruppo e sulla numerosa parentela, troppo giovane per finire come i Rockefeller, troppo ambizioso per dedicarsi alla filantropia come Bill Gates, troppo poco italiano per buttarsi in politica, ha scelto il campo che alla politica è più vicino, fino al punto da sovrapporsi ad essa: l’editoria. Ma con un progetto che per molti versi segue il modello Fiat.
L’idea è mettere in piedi una holding fuori dall’Italia, possibilmente a Londra o a New York, nella quale inserire le partecipazioni editoriali attuali e future, opportunamente scorporate e sistemate, chiamando a partecipare investitori istituzionali e grandi gruppi internazionali. Con l’ingresso nel consiglio di amministrazione dell’Economist (gruppo Pearson) e soprattutto in News Corporation (Rupert Murdoch) può imparare il mestiere, tessere relazioni, costruire quel reticolo che potrebbe portare finalmente i mass media italiani fuori dalla provincia, lontano dai compagnucci della parrocchietta che li dominano da sempre. Il primo frutto già è stato annunciato: Exor e News vogliono acquistare insieme i diritti commerciali della Formula Uno; la tv si nutre di sport e spettacolo più che di informazione.
L’ingegner Elkann, come lo chiamano i suoi collaboratori, per certi versi segue le orme di un altro ingegnere, anzi dell’Ingegnere, Carlo De Benedetti, con il vantaggio di non partire da un collasso finanziario come accadde a CDB nei primi anni ’90. Naturalmente i passaggi sono molti, complessi e rognosi. Il primo rompicapo si chiama Rcs: aumento di capitale, scioglimento del patto di sindacato, ridefinizione degli equilibri azionari. Poi c’è il passaggio della Stampa che dovrebbe essere conferita al nuovo gruppo insieme alla società che raccoglie pubblicità. Poi ancora il web. Ma non basta. Senza televisione non si va da nessuna parte, non solo in Italia, nel mondo.
Le ultime mosse di Exor, la finanziaria nave ammiraglia di Elkann, sono chiare: ha il 30% virgola qualcosa di Fiat Industrial e di Fiat auto, anche se con un effetto leva finanziaria molto elevato (a ogni euro del controllante ne corrispondono 13 conferiti dagli altri azionisti o dai creditori, secondo le stime di Mediobanca). Dopo la fusione con Chrysler intende mantenere un ruolo da azionista di riferimento del nuovo gruppo americano. Naturalmente, molto dipenderà dalle condizioni alle quali avverrà il controllo (a quale prezzo verranno acquisite le azioni di Veba, il fondo pensioni del sindacato?) e da come sarà realizzata la quotazione a Wall Street. Tuttavia, è stato ribadito l’impegno a non comportarsi da socio passivo. Non c’è motivo per non prenderlo sul serio. Intanto, Exor ha già venduto la Sgs (da dove proviene Marchionne) per due miliardi di euro. Non solo. Si parla di passare la Ferrari direttamente sotto la holding, il che aggiungerebbe liquidità alla Fiat e sottrarrebbe un gioiello (che a questo punto diventa di famiglia) alla Chrysler. La polemica sulla sede fiscale sembra di retroguardia nel mondo globale. Non lo è la discussione sul ruolo riservato alle attività industriali italiane e quindi all’occupazione, al lavoro, all’intelligenza, alla ricerca, in un paese industriale importante che tanto ha dato (anche in termini di potere non solo di assistenza economica) agli Agnelli.
L’operazione Chrysler dovrebbe chiudersi l’anno prossimo sull’onda di una brillante ripresa. L’azienda americana continua ad andare bene, anche se deve compiere quel salto di qualità promesso da Marchionne. Il rilancio resta trainato da Jeep e pick-up, negli altri segmenti c’è molto da fare (nonostante il buon andamento della Dodge). Per diventare un vero gruppo globale mancano due gambe importanti: l’Asia dove la penetrazione non è riuscita, e l’Europa dove il declino sembra inarrestabile. Per l’uno e per l’altro, Marchionne dovrà trovare dei partner robusti. Problemi seri, ma sono problemi di crescita. Ben diversi quelli da affrontare nell’editoria.
Un anno fa Elkann, sostenuto da Mediobanca, ha rovesciato gli equilibri in Rcs. I primi due azionisti del patto di sindacato che controlla il 58% del capitale, hanno imposto il loro consiglio di amministrazione (e l’amministratore delegato, Pietro Scott Jovane proveniente da Microsoft) rompendo con Diego Della Valle (8,6%) e tenendo fuori dalla porta il principale singolo azionista, Giuseppe Rotelli (16,7%). Ma da allora ad oggi la situazione del gruppo si è aggravata. La crisi Rcs è un cocktail dai molti ingredienti: 1) innanzitutto, la rivoluzione tecnologica con l’irrompere dell’informazione via web, anche se nessuno sa come trasformare il nuovo mezzo in un business model: la stragrande maggioranza del fatturato proviene ancora da carta e televisione, e quest’ultima continua ad assorbire la fetta nettamente maggiore degli introiti pubblicitari; 2) Rcs è particolarmente indietro in questo cammino, soprattutto non possiede una tv, ciò rappresenta un grande punto debole anche per la ricerca di un futuro partner: senza televisione nessun gruppo può definirsi multimediale e se non è multimediale non è appetibile; 3) l’espansione estera non è riuscita; Flammarion, la casa editrice francese, è stata venduta e il gruppo spagnolo Recoletos, si è rivelato un enorme grattacapo: acquistato per oltre un miliardo di euro, è la causa principale del pesante indebitamento di Rcs una grave fonte di perdite; 4) i periodici non funzionano: la gestione Mieli ha moltiplicato le testate per moltiplicare le direzioni, dicono i critici; fonte di consenso soprattutto da parte di giornalisti, sono stati dei clamorosi flop; 5) i libri in questo mercato asfittico, sono un settore in via di consolidamento, quindi hanno bisogno di trovare un buon partito: c’era in ballo Feltrinelli, ma è stato respinto per opportunità politica (troppo di sinistra); 6) con un debito di 860 milioni di euro su 1,6 miliardi di ricavi e un risultato netto negativo per 509 milioni, Rcs è sull’orlo del collasso.
Il piano proposto da Jovane non ha convinto molti soci. Benetton e Merloni si sono ritirati, Pesenti ha un piede sull’uscita d’emergenza, trattenuto per la giacca da Mediobanca. Tutti gli storici azionisti che facevano parte del sistema Cuccia sono nelle mani delle banche creditrici, quindi la loro libertà di manovra è limitata. Lo stesso vale per Rotelli che si è indebitato con Intesa per acquisire il San Raffaele. Diego Della Valle, così, interpreta la parte del cavaliere solitario. All’assemblea del 30 maggio il suo legale, Sergio Erede, ha smontato pezzo per pezzo la strategia di Jovane. «La manovra che il consiglio propone – ha detto – si regge su tre pilastri: un piano di ristrutturazione caratterizzato fin dall’inizio da ottimismo, una manovra finanziaria negoziata come se Rcs non fosse una società in crisi e una ricapitalizzazione fortemente diluitiva e per più di un terzo destinata al ripagamento del debito».
E’ utile ricordare i punti essenziali dell’intervento-requisitoria, perché attorno ad essi ruota l’aggiustamento del piano al quale l’amministratore delegato dovrà mettere mano ed influiranno anche sulla effettiva scelta di sottoscrivere l’aumento varato a maggioranza:
Il reddito. «Rcs ha chiuso il primo trimestre con un ebitda (margine operativo lordo) negativo di circa 40 milioni, per raggiungere l’obiettivo 2013 (ossia un ebitda ante oneri di ristrutturazione di 30-40 milioni) dovrebbe guadagnare 70-80 milioni nell’ultima parte dell’anno. Un traguardo per noi irrealistico alla luce dell’andamento nel 2012 Rcs». Visto l’andamento del mercato pubblicitario (-26% con un tendenziale peggioramento in Italia e Spagna) e di quello delle diffusioni, il margine sarà negativo.
Il credito. Sulle tre nuove linee di credito per un totale di 600 milioni, l’avvocato Erede ha espresso «stupore nel constatare che già nel luglio 2012 la situazione di tensione era nota. Ma sono occorsi ben otto mesi per presentare un piano di ristrutturazione finanziaria, trascurando poi la circostanza che l’80% del debito scadeva tra il novembre di quest’anno e la primavera del 2014». Inoltre, «al momento non sono previsti piani di ristrutturazione del debito finanziario».
Il capitale. L’avvocato ha messo in dubbio la solidità dell’aumento di capitale: «L’onore del rifinanziamento è posto per intero a carico degli azionisti sottoscrittori. Dei 400 milioni, 150 sono destinati al rimborso delle banche, mentre i 250 residui saranno assorbiti da oneri di ristrutturazione, investimenti industriali, la perdita del 2013 e oneri finanziari».
Della Valle ha votato contro, non così Giuseppe Rotelli con il suo 16%. Ma ha posto come condizione lo scioglimento del patto di sindacato. Sarà questo l’appuntamento chiave, il prossimo autunno, dal quale potrà scaturire un diverso equilibrio proprietario. Un ruolo importante gioca Banca Intesa che concede la quota più consistente del prestito, finanzia Rotelli, mantiene con Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza, quella funzione di Lord protettore del Corriere della Sera che “Nanni” ha svolto fin da quando nel 1983 salvò la Rizzoli dalla bancarotta.
Si parla di un partner straniero e si è fatto il nome di Axel Springer. Ma Giuseppe Vita, presidente del consiglio di sorveglianza del gruppo tedesco, oltre che presidente di Unicredit, ha lasciato il consiglio Rcs proprio per non suscitare cattivi pensieri. L’unico che abbia davvero il talento per un giornalismo politico all’italiana è Rupert Murdoch: lo fa in Gran Bretagna (si pensi all’appoggio alla Thatcher prima e a Blair poi o alla guerra aperta contro la Corona fin dai tempi di Lady Diana, per la quale usa i suoi tabloid), lo fa negli Stati Uniti e in Australia. Un editore come Pearson è troppo distaccato e cosmopolita. Springer sarebbe un pesce fuor d’acqua nelle tempeste italiche. Per ora sono solo fantasie. La Rcs prima va risanata e poi dotata di una solida proiezione web e di una tv. E’ a questo che bisognerà guardare nei prossimi mesi. E allora si capirà se quello di John Elkann è il sogno di un giovane milionario o il solido progetto di un nuovo Citizen Kane.