Dopo il dubbio, ecco l’inganno: la favola della passione-per-il-lavoro a volte conduce a una falsa morale, quella per cui si può anche lavorare gratis. E ci si casca, oh se ci si casca. Perché si pensa: il mio lavoro è così bello che lo farei gratis.
Ennò! Fermo, fermo e non ti muovere. Tu non devi fare niente gratis!
È difficile, lo so, ma gratis niente. Niente.
Lo so che il lavoro è come la droga. Figurati se non lo so.
Ma hai mai sentito di un idraulico che ti aggiusta il tubo gratis? Perché l’unica categoria per cui si crede normale fare qualcosa gratis è quella dei lavoratori sedicenti della cultura, a cui si chiede di scrivere, parlare, presenziare gratis? Attenzione: non è solo un problema personale. Quella per cui il lavoro va difeso prima di tutto da noi perché costruisce il mondo di tutti e blabla… è una questione di mercato. Anche il mercato va difeso. Per il bene di tutti.
Mi spiego.
Nel mio caso, si tratta di alcune situazioni standard. La prima comincia con la mail di un signore in pensione, colto, elegante, curioso, anche simpatico. In genere ha letto il mio nome su qualcosa di lusinghiero, oppure mi ha ascoltato alla radio o vista in tivvù oppure, meglio, ha letto qualcosa di mio. Mi invita con buon anticipo a un evento intelligente di venerdì sera o di sabato pomeriggio, in una città a tre ore di regionale, una di quelle che per una strana euristica finisco per pensare che valgano il viaggio. E zac! È un attimo. Mi sono fatta fregare.
Il pensionato di buona volontà mi spiega che tutti i partecipanti all’evento vengono senza essere pagati perché l’organizzazione è di un piccolo circolo culturale che ha il patrocinio del Comune ma lavora solo su base volontaristica. Vorrei fargli notare che lui tutti i mesi prende una pensione garantita, mentre io tutti i mesi non prendo un bel niente se non mi sbatto a recuperare euro per euro i soldi che mi devono i miei quaranta clienti di cui trentotto morosi. Che forse anche per questa diversa modalità di foraggiamento del conto corrente, il mio lavoro a lui pare un po’ troppo simile a un hobby anche se un hobby non è. Mentre il suo è un hobby davvero, ma lui se lo può permettere.
Vorrei farlo, ma alla fine vince sempre lui. Anche perché forse un po’ ha ragione: nel nostro Paese, nelle nostre province, è bello e giusto che ci sia qualcuno come il pensionato di buona volontà che si dà da fare per portare un po’ di aria nuova a gente che altrimenti avrebbe poche possibilità di vedere il mondo là fuori.
Vince lui e io mi sento addosso una sensazione a metà tra la gratificazione del filantropo e la coglioneria del fesso. Quella volta che mi hanno elargito i tramezzini avanzati dal buffet, la seconda sensazione ha prevalso nettamente.
Poi ci sono quelli che mi chiedono un contributo per un libro. Gratis, si intende, perché non ci sono nemmeno i soldi per pagare l’editore (si chiama tipografo, in quel caso, ma vabbè) figuriamoci per pagare chi ha scritto dieci paginette timesnewroman12. Figuriamoci.
Tanto tu hai già scritto altre volte di quella cosa, mi dicono. E per me, ma penso per chiunque, è impossibile pensare di tirare via e di fare un copia e incolla in quaranta minuti: ci va la mia firma, e poi non si fa. Ecco due pomeriggi di lavoro gratis, forse nove, undici con la rilettura.
Ci sono quelli che se si risparmiano un biglietto del treno è meglio: già che sei da queste parti (e che sei venuta a tue spese, aggiungo io), fai un salto da noi così facciamo una riunione? Ci sono quelli che non mi pagano e ogni volta mi promettono che lo faranno, e io continuo a scrivere per loro perché in fondo è una buona vetrina. Finché la vetrina non viene chiusa e si dichiara la liquidazione coatta. Quelli che ammettono candidamente da subito che non mi pagheranno mai, e io sono una che apprezza l’onestà, e la premia. Quelli che mi contattano loro, però poi mi chiedono di fare una prova non pagata. Quelli che mi chiamano a un colloquio ma non rimborsano il treno. Quelli che mi scrivono chiedendomi consigli o facendomi proposte di lavoro così confuse che non mi accorgo nemmeno che non si fa nessuna menzione al vile denaro. Quelli che hanno avuto un’idea, quelli che hanno finalmente capito che cosa fare da grandi, quelli che hanno organizzato il congresso della vita, quelli che sono amici di mamma, quelli che mi hanno visto a una conferenza e quelli che sono ansiosi di collaborare con me, proprio con me, e non si chiedono perché dovrei fare i salti di gioia, io, all’idea di lavorare con loro. E tutti mi vogliono coinvolgere perché mi stimano un sacco, ma non mi possono pagare.
Se accettassi, farei molto male al mio investimento numero uno, cioè al mio lavoro. E farei un danno importante al mercato. Perché lavorando gratis è quasi certo che si venga scelti senza una valutazione della professionalità, ma solo per il prezzo. In questo modo si innesca un meccanismo viziato di ribasso continuo e implacabile della qualità del lavoro, a detrimento di chi quel lavoro lo fa e di chi dovrebbe goderne i frutti. Mi spiego.
Un editore poco interessato alla qualità di quel che pubblica, tra un lavoratore bravo che costa X e uno medio che costa X/2, preferirà quest’ultimo. E il costo di quel servizio sarà fissato a X/2, così come, probabilmente, la sua qualità. Se l’editore deciderà di abbassarlo a X/3, il lavoratore medio potrà fare due cose: accettare e quindi essere complice dell’abbassamento del valore di quella prestazione. O rifiutare, lottando per il mantenimento del valore a X/2, che peraltro è comunque bassino visto che eravamo partiti da X.
Se poi ci sarà uno stagista con esperienza (figura professionale sempre più diffusa, corrispondente a un lavoratore intorno ai 28 anni plurititolato e ricco di famiglia) che accetterà di farlo gratis, il valore di quella roba diventerà zero. Il primo lavoratore e il secondo si troveranno disoccupati e soprattutto vedranno il loro lavoro svalutarsi fino allo zero: quel patrimonio di competenze e credibilità non varrà più niente, nessuno pagherà più per le loro prestazioni. E il pubblico avrà un servizio di qualità più bassa.
Per me, la colpa più grave ce l’ha il secondo lavoratore, quello che ha inaugurato la china al ribasso. Il primo lo salvo, anche se probabilmente è uno che ha entrate fastidiosamente superiori alle mie. Lo stagista lo assolvo per i primi tre mesi. E il caso che l’editore sia interessato alla qualità, ammettiamolo, non è poi così frequente.
Twitter: @sbencivu, @Liberariaeditri
Silvia Bencivelli, Cosa intendi per domenica? – La mia (in)dipendenza dal lavoro, LiberAria editrice, 126 pagine, 10 euro
*Silvia Bencivelli è nata nel 1977. È laureata in medicina: giornalista scientifica freelance, conduttrice radiofonica e saggista. Ha collaborato con la trasmissione di Rai 3 Presa diretta e con altri programmi Rai ed è membro del board di SWIM (Science writers in Italy). Ha pubblicato Perché ci piace la musica (Sironi 2007, 2012) e Il sesso a test (Alpha test editore 2008).