«Hanno fatto la solita legge inutile. Penalizzante, democristiana, parrocchiale, che non ha portato a niente». La voce è quella di un giornalista specializzato nel settore della nautica, Roberto Franzoni. Ma potrebbe essere quella di chiunque altro operatore che lo scorso anno ha visto lo sconquasso dei porti turistici italiani. Domanda di ormeggi annuali: -26 per cento. Transiti: -34 per cento. Manutenzioni delle imbarcazioni: -30-40 per cento. E soprattutto spesa dei diportisti sul territorio -56%, da 1,1 miliardi a 484 milioni di euro. Né c’è da aspettarsi un miglioramento per la stagione alle porte. «Il 2013 andrà addirittura peggio del 2012» stima Roberto Perocchio, presidente di Assomarinas, associazione di categoria dei porti turistici. «Ci attendiamo un inizio di miglioramento a partire dal 2014». Non c’è stata una calamità naturale, ma la crisi e una tassa. Anzi, l’annuncio di una tassa.
È il 6 dicembre 2011 quando il governo Monti vara il decreto Salva Italia. L’obiettivo, come noto, è quello di riportare i conti italiani in ordine. Tra le fonti possibili di entrate vengono individuati i possessori di barche, italiani e stranieri. Viene fissata una tassa di stazionamento nei porti, a partire dal maggio 2012: le barche di 10 metri devono pagare 5 euro al giorno, ossia 1.800 euro all’anno. Diventano 30 euro al giorno per quelle tra i 17 e i 24 metri (quasi 11mila euro all’anno), 90 per quelle di 24-34 metri (32mila euro all’anno), fino a 703 euro per i giganti sopra i 64 metri (256mila euro all’anno).
Il decreto scatena proteste e soprattutto tante decisioni: quelle di cambiare destinazione, dirigersi verso i lidi francesi, spagnoli e soprattutto croati, i grandi rivali in ascesa del turismo nautico. Il governo subisce le pressioni dell’associazione di categoria Ucina, così che in sede di conversione del decreto legge il testo cambia. Non ci sarà più una tassa di stazionamento, applicabile anche agli stranieri, ma una tassa di possesso. Né più né meno come quella per le auto o le moto. Ora una barca di 10 metri paga 800 euro all’anno. «Considerando che il costo di un’imbarcazione di questo tipo è di 100mila euro nuova o 25mila euro usata, non è uno scandalo», dice Franzoni. Salendo di metratura, uno scafo tra i 20 e i 24 metri (costo approssimativo 1,5 milioni di euro) paga 4.400 euro e uno scafo da 30 metri (costo 5 milioni circa) 7.800 euro. Il problema è che i soldi stimati non si vedono: erano attesi 150 milioni di entrate fiscali, ne sono arrivati solo 25, secondo una stima di Ucina. E soprattutto, il guaio è che le barche nel frattempo erano già scappate.
«La tassa di Monti ha fatto un grande danno. Una volta corretta in tassa di possesso è stata resa accettabile. Il problema è che né il governo né l’Ucina (l’associazione confindustriale della nautica, ndr) hanno comunicato che il cittadino possessore di una barca non è un perseguitato». A parlare è Paolo Vitelli. È il presidente di Azimut Benetti, la seconda impresa italiana del settore nautico, dopo la Ferretti, e una delle maggiori al mondo. Ma da marzo è anche un deputato, membro della commissione Trasporti ed eletto proprio per la lista Monti, praticamente un segnale di scusa da parte di Scelta Civica nei confronti del settore nautico. «Ancora oggi la situazione non è cambiata – prosegue -. Continuo a sentire persone convinte che ci sia ancora la tassa di stazionamento. Sono gli effetti del bombardamento psicologico del castigo». Che farà ora per porre rimedio? «Nei prossimi giorni mi adopererò per correggere la situazione. Abbiamo individuato dei correttivi, da proporre al ministro Lupi e che sarà importante comunicare». Quali correttivi? «Non posso dire niente. Posso solo dire che il problema del settore è per il 50% legato alla crisi economica e per il restante 50% all’atteggiamento negativo che hanno avuto tutti i governi nei confronti della nautica. Dobbiamo agire su quest’ultima parte, a partire da una corretta comunicazione».
Chi opera nella nautica vede come fumo negli occhi anche i controlli fiscali. «Già dal 2010 si sono intensificati i controlli in mare di tipo fiscale – continua Perocchio -. Poi c’è stato il redditometro: fino all’aggiornamento dell’inizio del 2013 per le imbarcazioni erano stimati costi superiori al triplo di quelli reali. In seguito i parametri sono stati corretti, ma è rimasto un messaggio chiaro: avere una barca in Italia è da demonizzare. E questo ha portato a una disaffezione nei confronti della nautica: i turisti o hanno scelto altre idee di vacanza meno penalizzanti o sono alla ricerca di ambienti più accoglienti: la Francia e la Croazia più di ogni altro».
Il porto di Lavagna, fallito già diverse volte
PORTI DA CAMBIARE
Secondo Perocchio i porti stanno ora facendo la loro parte nel trasmettere le informazioni sulle nuove disposizioni fiscali. «Ma la comunicazione è diretta soprattutto all’estero. Proviamo a recuperare soprattutto i turisti francesi, tedeschi e russi. Siamo infatti rassegnati al fatto che l’utenza italiana avrà bisogno di almeno due anni per riprendersi». Recuperare i turisti non sarà semplice, spiega Anton Francesco Albertoni, presidente di Ucina, perché nel frattempo i porti dei Paesi vicini hanno siglato contratti pluriennali.
Le nostre marine dovranno anche darsi una mossa per quanto riguarda i prezzi. «Se i porti sono carissimi e i servizi sono modesti, la gente non viene – attacca Roberto Franzoni -. Faccio solo un esempio: in Corsica una barca di 15 metri in agosto paga 80 euro al giorno, alla Capraia 150 euro. Perché devo pagare il doppio se in un porto francese mi accolgono le hostess sorridenti e quelli italiani sono scalcagnati?». Una lettura che però è completamente rigettata da Perocchio: «i prezzi si sono già abbassati, tutti hanno attuato incentivi: hanno intensificato le promozioni, hanno creato eventi e servizi complementari all inclusive. Abbiamo operato una verifica delle tariffe delle strutture adriatiche e di quelle croate: per la prima volta le tariffe croate hanno superato quelle italiane, pur essendo il costo del lavoro la metà. Quanto alla differenza tra Sardegna e Corsica, si tratta di porti non paragonabili: in Corsica sono ex porti pescherecci o statali dimessi, in Sardegna sono strutture di primissimo livello».
Sicuramente sono strutture in crisi: il porto di Sanremo è già fallito quattro volte, quello di Lavagna cinque, spiega Franzoni. Non è una questione di incapacità pubblica, perché in genere sono privati o gestiti in concessione da privati. Casomai il problema è di mancanza di infrastrutture. «Sia a Lavagna che a Sanremo è da 20 anni che non si riesce a fare un retroterra – aggiunge il giornalista -. Significa poter completare il porto con negozi, ristoranti, parcheggi, cioè portare i soldi sul territorio».
Uno sviluppo che però c’è stato in termini di offerta numerica. «Le associazioni di categoria avevano ottenuto – dice ancora Perocchi – di poter ricorrere allo strumento della Conferenza dei Servizi per la costruzione di nuovi posti barca. Negli ultimi cinque anni ne sono stati creati 15mila in più e altri 20mila sono in costruzione. Ci sono poi nuovi porti turistici, a Pisa e Manfredonia». Sono semivuoti, «e questo ci ha lasciato spiazzati».
Poi ci sono i porti fatti male. Non usa mezzi termini Vitelli: «Gente come [Francesco Bellavista] Caltagirone ha sbagliato tutto, sui fronti della destinazione di aree a club, del commercio e degli aspetti funzionali. A Fiumicino c’è un’indagine della magistratura per una diga realizzata con materiale non adeguato; a Imperia ci sono dei problemi funzionali e il porto di Siracusa è troppo lontano dalla città. Sono tre disastri».
I cantieri della Carnevali Yachts
INDUSTRIA IN AFFANNO
Anche il fronte della produzione è in ginocchio. L’Italia è stato da sempre ai vertici per la produzione delle imbarcazioni, soprattutto quelle lussuose sopra i 24 metri. Ma il crollo è stato verticale. Rispetto al 2008, il fatturato del 2012 dell’intero comparto nautico è stato inferiore del 60 per cento. Considerando la sola cantieristica, il valore del fatturato 2012 è stimato tra 1,6 e 2 miliardi, per 150 aziende e 10.200 addetti diretti; nel 2008 era pari a 3,8 miliardi e gli addetti erano 20.400.
Se cinque anni fa quattro quinti delle barche da diporto prodotte in Italia si vendevano nel mercato domestico, oggi se ne esportano l’85 per cento. «E questo è un rischio, finora ci ha salvato ma può diventare un elemento di debolezza del sistema» dice Albertoni. Succede infatti che i grandi mercati emergenti su cui si è scommesso stanno rallentando. «La Cina non tira come nelle prospettive di molti, il Brasile ha arrestato la sua crescita, il sud Europa è statico – suona l’allarme Vitelli, nelle vesti di presidente di Azimut -. Rimangono pochi mercati su cui puntare: gli Stati Uniti, la Russia, parte del Medio Oriente. Non tutti gli operatori sono attrezzati per quei mercati e mi aspetto che molte aziende non reggano il perdurare della crisi. La situazione, a livello di occupazione, sarà negativa come quella del 2012 o vedrà un ulteriore peggioramento».
La stessa Azimut ha appena chiuso uno stabilimento, quello di Piacenza, lasciando senza lavoro 180 dipendenti. Che succederà agli altri stabilimenti? «Dopo il sacrificio di Piacenza stiamo incrementando la produzione negli altri – risponde Vitelli -. Noi abbiamo avuto autorizzazione per la cassa integrazione, ma la stiamo usando in minima parte. Siamo attrezzati dal punto di vista finanziario e delle esportazioni. Stiamo valutando l’acquisizione di uno o due operatori in difficoltà, anche se tutte le risorse dovranno andare sull’innovazione di prodotto».
Altrettanto critica è la situazione della Ferretti-Yachts. Lo scorso anno è stata comprata dai cinesi di Shig-Weichai e all’inizio di quest’anno si era parlato di possibili chiusure di siti produttivi e di 100 esuberi. È effettivamente stato raggiunto un accordo con le organizzazioni sindacali per la cassa integrazione per i dipendenti Ferretti e Crn, ma gli esuberi sono scesi a 65 e su base volontaria. Una conferma arriva da Luigi Giove, coordinatore nazionale del gruppo Ferretti presso la Fillea-Cgil: «abbiamo appena concluso un accordo che fa seguito al piano industriale – spiega -. L’azienda ha promesso investimenti per 60 milioni sull’innovazione di prodotto e ci ha chiesto di fare una riduzione dei costi indiretti. L’accordo prevede la cassa integrazione e la messa in mobilità solo su base volontaria dei lavoratori indiretti (impiegati, ndr). L’azienda ha però anche detto che se la dinamica si confermerà questa, non tutti i siti produttivi saranno garantiti. Un’opinione di questo tipo andrebbe in contraddizione con tutto quello che la società ha detto quest’anno».