Non era soltanto lo sgomento per un amico che ci ha lasciato prima del giusto, le parole struggenti dei figli, le note di Eleanor Rigby a fare da colonna sonora.
C’era qualcosa di più di un dolore privato, al funerale di Giuliano Zincone, ieri mattina a Santa Maria del Popolo: il senso di un cordoglio condiviso, un lutto collettivo, di categoria. Le esequie del giornalismo così come lo abbiamo imparato, vissuto, amato e sofferto per trenta o quarant’anni della nostra esistenza. Come in un film di Sorrentino, ci siamo sentiti di colpo postumi di noi stessi, i sopravvissuti di un mondo in disfacimento. O forse già transitati, a nostra insaputa, in quell’oltremondo, paradiso o inferno poco importa, descritto con elegante ironia dalla penna di Giuliano.
Nelle navate il gotha della stampa era schierato quasi al completo. Direttori alle prese con voragini di bilancio, testate da chiudere e azionisti riottosi, ex-direttori in trincea per gli aiuti di stato all’editoria o il blocco delle rassegne stampa online, grandi firme sull’orlo di un prepensionamento non voluto, acuti editorialisti invecchiati bulinando intorno ai vizi della destra, ma anche (soprattutto) della sinistra, sindacalisti in lotta per l’Inpgi e la Casagit.
Dopo, sul sagrato, ci si riconosce, ci si abbraccia. “Gran gentiluomo”. “Un vero liberale”. “Un giornalista di classe, come non se ne vedono più”. È vero, Giuliano era uno dei cavalli di razza della scuderia del Corriere, uno degli ultimi esemplari di quell’élite di cronisti-letterati che hanno raccontato l’Italia e il mondo in pagine da antologia.
Nel giorno dell’addio, è consolante sentirsi un po’ tutti parte di quell’élite. Ah, i bei tempi degli inviati con la Mont Blanc, degli hotel a cinque stelle e dei rimborsi a pié di lista. Quando la parola scritta era sporca d’inchiostro, una mitragliata di Lettera 22, fogli appallottolati nel cestino tra nuvole di Marlboro. Un’impresa solitaria e a suo modo eroica, come le scalate di Coppi, senza social network né motori di ricerca, ma con un ottimo liceo alle spalle e una squadra di archivisti pronti a faxarti le informazioni che ti servivano per il pezzo. Quando scrivere era un mestiere per pochi eletti, e la maggioranza non scrivente si accontentava di leggere, senza odiare né insultare.
Giuliano Zincone
Viene facile rimpiangere quell’Eldorado nella nostra quotidianità internettiana dove la parola scritta è diventata pervasiva, tracimante, un’esplosione di grafomania che dà voce a migliaia di aspiranti Zincone, a tanti talenti giornalistici condannati altrimenti a restare nell’ombra, ma anche a squadracce di troll, a teppisti e tribuni virtuali. Attenzione però, le lenti della nostalgia offuscano la vista.
Abbracciamoci e piangiamo pure, cari colleghi, ma cerchiamo di ricordare tutto, non solo quello che ci fa comodo. Intanto, non so voi, ma io per niente al mondo sarei disposto a tornare all’era pre-Google e pre-twitter, l’era delle agenzie, della Garzantina e dei servizi dettati al telefono. E poi, a pensarci bene, nelle redazioni dei nostri ieri non c’erano soltanto gli Zincone. C’erano anche quelli (e non erano pochi) che prendevano lo stipendio per fare un titolo o una didascalia al giorno, quelli che la domenica mattina venivano a ritirare la mazzetta dei giornali e si segnavano presenti, quelli che facevano causa per essere promossi inviati, quelli che dopo essere stati promossi inviati passavano il tempo a sparlare del direttore che non li inviava da nessuna parte, quelli che gonfiavano le note spese e si facevano pagare gli stage ai Caraibi.
Miserie di una casta minore, che si è auto-perpetuata e imbalsamata insieme alla Casta con la c maiuscola, e l’ha lisciata per decenni ricevendone benefici e prebende, prima di massacrarla a colpi di inchieste e di fescennini. Che negli anni più orribili della nostra storia recente ha preferito dedicarsi al cazzeggio e al gossip di palazzo. Che ha esaltato le gesta imprenditoriali dei vari Tanzi fino al giorno prima del crac. Che con tutte le sue raffinate analisi politologiche non ha intercettato per tempo la marea dell’antipolitica. E ora si guarda intorno smarrita, come il padre McKenzie di Eleanor Rigby, che “scrive le parole di un sermone che nessuno ascolterà”.
Twitter: @chiaberger