Laureati di oggi fanno il lavoro dei diplomati di ieri

Un bilancio della riforma universitaria. Il 3+2 non ha favorito la mobilità sociale

Chiara ha 29 anni, una laurea specialistica in Economia aziendale presa in Bocconi nel 2008 e un lavoro in una società di gestione del risparmio. Si occupa di operational e financial risk, valuta cioè il rischio e la legalità degli investimenti fatti dai clienti in diversi tipi di prodotti finanziari, compresi i derivati. Giulia invece di anni ne ha 33 e si è diplomata in ragioneria nel ’99. A sei mesi dal diploma ha iniziato a lavorare nella banca in cui si trova ancora oggi. All’inizio si è occupata di back office, poi, racconta «con il boom dei fondi speculativi» ha iniziato a metà anni 2000 a seguire la gestione di fondi hedge e da circa un anno verifica dal punto di vista legale ed economico la sottoscrizione di derivati Otc. Chiara e Giulia (i nomi sono di fantasia), fanno lo stesso lavoro pur avendo percorsi formativi diversi alle spalle.

I laureati italiani, a 13 anni di distanza dalla riforma del 3+2 introdotta con il decreto legislativo 509 nel 1999, svolgono mansioni simili a quelle che un tempo erano appannaggio di lavoratori meno istruiti. Hanno titoli poco apprezzati dai datori di lavoro, stipendi più bassi dei laureati con il vecchio ordinamento. Perché il sistema produttivo italiano, pur assorbendo molti più laureati di prima, non ha modificato la propria struttura e la tipologia di mansioni. Ma non solo. Quale ruolo ha l’università in questo? E quale invece le riforme che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro? 

Il professor Daniele Checchi, docente di Politica presso l’Università degli studi di Milano ha affrontato la questione in un rapporto scritto insieme a Giuseppe Bertola, dell’Università di Torino*, poi confluito nel volume edito dalla Fondazione Agnelli con il titolo I nuovi laureati, La riforma del 3+2 alla prova del mercato del lavoro, 2012, Laterza. Checchi e Bertola hanno studiato gli effetti della riforma del 3+2 con un obiettivo preciso: misurarne l’efficacia nel favorire l’ascesa sociale dei laureati. La risposta? Se da un lato la riforma ha aumentato il numero di matricole, dall’altro non ha garantito ai suoi laureati migliori condizioni lavorative e reddituali. Colpa della crisi economica? Non proprio, visto che i dati raccolti si riferiscono a un arco temporale che si ferma alle soglie del 2008. 

Unendo i dati di più istituti (dall’Istat, ai dati di Banca d’Italia, Cnvsu ai rapporti Almalaurea), il professor Checchi ha analizzato contemporaneamente due mercati: quello dell’istruzione universitaria (gli studenti sono la domanda, gli atenei l’offerta) e quello del lavoro (dove i laureati sono l’offerta e le imprese la domanda). E per misurare il grado di mobilità sociale introdotto dal nuovo ordinamento, ha verificato il variare del numero di immatricolazioni e dei tassi di abbandono da un lato, e la difficoltà per i nuovi laureati di trovare impiego nel mercato del lavoro dall’altro.

Obiettivi raggiunti solo in apparenza
«Osservando il numero dei laureati si vede come esso raddoppi nell’arco del decennio», commenta il professore. E fermandosi a questo, potremmo dire che la riforma ha raggiunto uno dei suoi obiettivi primari, quello di aumentare il numero di laureati e accorciare le carriere accademiche. Un risultato che è però artificiale. Da un lato perché molti studenti del vecchio ordinamento transitano al nuovo conseguendo prima del previsto una laurea triennale (nel 2004, ad esempio, gli studenti cosiddetti «ibridi» sono il 41,5% del totale), dall’altro perché il sistema del 3+2 «prevede che uno studente che consegue prima il titolo triennale e poi quello biennale venga conteggiato come doppiamente laureato, per ciò stesso gonfiando il numero dei laureati».

Analizzando i dati sugli anni medi di ritardo dei laureati rispetto alla durata legale dei corsi, la ricerca mostra come la riforma raggiunga invece il secondo obiettivo: «velocizzare il percorso di studio degli studenti», sostiene Checchi, sulla base dei dati forniti dal Cnvsu. «Se nel 2008 il nuovo ordinamento consente in media di ottenere un titolo triennale a 26 anni o specialistico a 27 anni, nel 2000 o 2002, anni rappresentativi del regme pre-riforma, il vecchio ordinamento produceva laureati mediamente più che ventottenni».

«Ma si tratta di dati che dicono poco sull’effettivo miglioramento delle chance lavorative individuali», sostiene Checchi, e non «comportano necessariamente un aumento del grado di fluidità sociale». Ecco perché

Impennata di iscrizioni, ma aumenta anche il tasso di abbandono
L’aumento delle iscrizioni ai corsi accademici a cavallo tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 è «una vera e propria impennata», sostiene Checchi, anche valutando i dati al netto di elementi come la crescente licealizzazione dei diplomati o il miglioramento progressivo dell’istruzione dei genitori, che influenza le scelte dei figli. Il tasso di immatricolazione dei diplomati italiani passa dal 54,9% del ’95 al 66% del 2004. «Tanto più che negli anni immediatamente precedenti la riforma, gli ingressi all’università stavano calando del 3,2%». Ma insieme alla crescita delle immatricolazioni, aumenta significativamente anche il tasso di abbandono, segno che la riforma «attira tra le mura universitarie studenti accademicamente più deboli».

Selettività sociale tra triennale e specialistica 
Snodo principale per valutare il grado di mobilità sociale della riforma è, secondo il professore, la laurea triennale. Raccogliendo i dati dei nuovi laureati distinti tra triennali, magistrali e a ciclo unico, Checchi confronta la loro origine sociale con quella dei laureati del vecchio ordinamento. Per scoprire che la riforma del 3+2 rimanda sostanzialmente la selettività sociale che prima avveniva al momento dell’immatricolazione, alla fine della triennale: «Gli studenti liceali, figli di laureati, con voti più alti e una carriera più breve tendono a proseguire con maggiore frequenza». E si osserva, tra 2004 e 2008 «un’incidenza crescente dei figli di famiglie classificabili come classe operaia tra i laureati triennali, mentre si accresce la quota dei figli della borghesia quando si tratta di laureati magistrali».

Nel 2008 la quota di laureati provenienti da famiglie in cui nessun genitore è diplomato è pari al 28,6% per i laureati triennali, al 23,9% per i laureati magistrali e al 16,6% per i laureati a ciclo unico. Mentre i corrispondenti valori per chi proviene da una famiglia dove almeno un genitore è laureato sono 22,9%, 30,3% e 45,3% rispettivamente. Se la scelta di proseguire gli studi nel biennio dipende molto dai voti ottenuti, forte resta secondo le ricerche del professore l’influsso dell’origine sociale: «relativamente alla bravura dimostrata negli studi, avere almeno un genitore laureato piuttosto che diplomato vale ai fini dell’iscrizione a una laurea specialistica come 10 punti di voto di laurea, o 30 punti di voto di maturità, o 7 mesi di ritardo alla laurea triennale». La riforma mantiene invariata l’influenza del titolo di studio dei genitori sulle chance di immatricolazione dei figli:

Nel grafico, l’unico mutamento di rilievo è la diminuzione del vantaggio dei figli di laureati. Ma è da attribuire, secondo Daniele Checchi, alla saturazione completa degli ingressi dei figli di laureati già prima della riforma

«Se la riforma fosse stata realmente efficace, avremmo dovuto trovare nei dati una riduzione significativa di queste associazioni, risultato che non si manifesta». «Da un lato quindi la riforma ha attratto verso l’università ceti sociali precedentemente esclusi (o solo parzialmente inclusi), per i quali il conseguimento di un titolo triennale è apparso come meta raggiungibile. Ma allo stesso tempo non ha corretto il carattere di selettività sociale, spostando semplicemente la soglia dall’immatricolazione triennale a quella magistrale». Il dato raccolto analizzando le regioni del Sud, inoltre, dimostra come la prosecuzione al biennio sia scelto anche nei casi in cui è più difficile trovare lavoro dopo il triennio: al Sud proseguono i 4/5 dei triennali, al Nord i 2/3.

I laureati trovano lavoro?
«Sì, lo trovano», risponde Checchi. «Ma non basta. Dobbiamo chiederci quale lavoro trovano e quanto sono pagati». Cresce costantemente infatti tra gli anni ’90 e il 2007 (in periodo privo degli effetti della crisi economica iniziata nel 2008) la presenza di laureati tra gli occupati, che potrebbe legarsi al loro aumento numerico, ma anche dell’uscita di scena di anziani con livelli inferiori di scolarizzazione. Eppure, «sembra che il sistema produttivo assorba quote crescenti di laureati senza modificare in modo evidente la struttura di settori e mansioni». Vale a dire, l’inserimento di laureati avviene per lo più tra imprese che restano simili a se stesse e sostituisce ai diplomati di ieri i laureati di oggi. Checchi cita un dato (fonte: Schivardi e Torrini 2010): «Tra 1997 e 2007, la riallocazione settoriale dei lavoratori ha contribuito per 0,9 punti percentuali su 5,5 punti di crescita della quota complessiva dei laureati in Italia, e la variazione delle dimensioni aziendali aggiunge solo 0,3 punti percentuali».

Più laureati ma anche più precari
Negli stessi anni in cui le università sfornavano nuovi e più numerosi laureati, due riforme del mercato del lavoro introducevano maggiore flessibilità («o precarietà, a seconda dei punti di vista») dell’occupazione. I laureati trovano sì lavoro, «ma il loro lavoro è più precario e meno pagato di quello dei loro fratelli maggiori del vecchio ordinamento, o dei loro coetanei che lavorano, da tempo, come semplici diplomati». L’aumento dei tassi di occupazione dei laureati è quindi per il professore «riflesso delle riforme che, contemporaneamente, consentivano ai laureati nuovi di essere assorbiti senza difficoltà, ma in condizioni di maggiore precarietà comparativa».

E la dimostrazione viene da una analisi regionale dei dati: «La riforma ha avuto un’evoluzione diversa tra regioni, così come le riforme dei contratti hanno influenzato il mercato del lavoro in tempi e con intensità diversa in regioni diverse». Per questo, confrontando la relazione tra tasso di occupazione dei laureati e la quota di lauree del nuovo ordinamento prima, e quella tra tasso di occupazione e introduzione di contratti a tempo determinato poi, nelle diverse regioni, si nota come «l’occupabilità dei laureati è stata aumentata significativamente – in anni di espansione economica – dall’introduzione di contratti di lavoro più flessibili. I dati indicano infatti «che la precarietà, in aumento per tutti, aumenta di più per i giovani laureati che per i loro coetanei diplomati, e specialmente dove e quando la riforma 3+2 è stata più veloce, e i giovani laureati conseguentemente più abbondanti».

I laureati guadagnano di più dei diplomati?
Per misurare la differenza degli stipendi tra laureati del vecchio e nuovo ordinamento, Checchi cita indagini Istat (Forze di lavoro) che tra 2004 e 2007 hanno esaminato campioni di laureati e diplomati a 3 anni dal conseguimento del titolo: «la risposta è impressionante: se nel 2004 un laureato tipicamente guadagnava il 25% in più di un diplomato, nel 2007 la differenza si riduceva all’8 per cento. Si tratta, conclude il professore, «di un altro indizio di un’accoglienza relativamente fredda, da parte di un sistema produttivo non interessato da forti cambiamenti strutturali che favorissero la domanda di lavoro altamente qualificato, per molti nuovi laureati». 

@SilviaFavasuli

* Daniele Checchi è redattore de Lavoce.info

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