L’ex fabbrica d’Europa, spoon river delle lavatrici

La crisi del lavoro. Tagli ed esuberi nelle storiche aziende di elettrodomestici

«Il lavoro non si tocca», recitano gli striscioni degli operai in protesta a Fabriano insieme alle tre sigle Fiom, Fim e Uilm. Il 4 giugno la direzione della Indesit Spa, storica azienda produttrice di elettrodomestici, ha annunciato il piano industriale dei prossimi tre anni: si chiude in Italia, si potenzia in Polonia e Turchia. Per un totale di due stabilimenti e 1.405 operai italiani in meno. Circa il 33% dei dipendenti locali, di un’azienda che in Italia impiega 4.300 addetti, 16.000 nei cinque poli produttivi in Europa. Chiudono due stabilimenti in Italia, se ne apre uno nuovo in Turchia.

«Programmi come questo ammazzano l’economia del Paese». Alessandro Pagano, coordinatore nazionale Fiom sta rientrando in treno da Fabriano, dove ha incontrato i vertici della Indesit. «Stiamo mettendo in forse la sopravvivenza della produzione industriale in Italia e non solo», incalza. «Finisce che venderemo i prodotti a basso costo fatti in Turchia a famiglie italiane che nel frattempo avranno perso il lavoro, con un ulteriore impoverimento del Paese e un crollo della domanda. Un non-sense». «Una riorganizzazione necessaria contro lo scenario competitivo europeo», ribatte l’azienda, «con un mercato dove continua l’espansione di nuovi produttori provenienti dai Paesi a miglior costo». 

E proprio qui sta il nodo della questione. Se negli anni scorsi aziende, sindacati e operai «hanno collaborato braccio a braccio per recuperare produttività negli stabilimenti», spiega Michela Spera, segretario nazionale Fiom, ora, «di fronte alla politica commerciale aggressiva dei concorrenti», imprenditori e sigle hanno rotto il patto. “Non accetteremo mai piani che offrono come unica soluzione la delocalizzazione”, ripetono all’unisono le tre sigle sindacali nel comunicato diffuso nei giorni scorsi, che chiedono un piano industriale mirato da parte del governo. «Bisogna scegliere quali settori salvare», chiede Spera. «E predisporre al più presto soldi pubblici da investire. Se la quota di produzione in Italia scende troppo, poi crolla tutto il settore, perché i costi di produzione si alzano ulteriormente e non si può più fare economia di scala». E ancora: «Elettrodomestici, auto e siderurgico sono i settori chiave per la produzione in Italia. Via questi, sparisce l’industria». Ed è proprio questo il nodo intricato, ben più complesso da sciogliere di certe semplificazioni sindacali. Oggi ci sono i colossi cinesi, Midea e Haier, che fatturano insieme 30 miliardi di dollari e coprono la fascia della grande distribuzione europea con prodotti di buon livello qualità/prezzo; è crollato del 35% il mercato occidentale medio-alto dove le nostre imprese sono tradizionalmente più forti; e nei paesi emergenti soffriamo la concorrenza dei brand tedeschi e americani. Servirebbe dunque tagliare il cuneo fiscale per evitare la fuga completa delle produzioni verso l’est Europa, defiscalizzare il costo del lavoro per i giovani ricercatori che fanno innovazione nei laboratori italiani e aumentare i controlli alle dogane sull’import cinese. Solo così si può immaginare di mantenere una quota importante di produzione in Italia. I 14 milioni di pezzi usciti dalle nostre fabbriche nel 2012 rappresentano l’alto di gamma per valore aggiunto, marchio e design come gli elettrodomestici da incasso, cappe e camini a buona tecnologia, ben sapendo però che su altre produzioni di fascia media non esiste più la domanda interna nè fattori di costo competitivi per sostenerle. E questo produrrà una riduzione di base occupazionale che andrà governata. Nel Bel Paese, infatti, la produzione di elettrodomestici impiega ancora 130 mila lavoratori, indotto compreso, un settore secondo solo all’automotive per livelli occupazionali. Oltre a vantare una serie di primati: è leader mondiale nelle apparecchiature professionali e nelle cappe, e nell’innovazione di prodotti ad alto valore tecnologico. È leader europeo nei grandi elettrodomestici ed è il primo settore in Italia nelle esportazioni. Ma quanto portà ancora durare il nostro primato?

Operai Indesit in protesta ad Aversa, Caserta, dove sono a rischio 540 posti di lavoro. Il piano presentato dall’azienda prevede la chusura dello stabilimento di Melano, vicino a Fabriano (Ancona) e di Aversa (Caserta). Dei 5 stabilimenti attuali, ne resterebbero solo 3. © LaPresse

Non c’è solo infatti il caso Indesit. La crisi del bianco, il settore che produce appunto lavatrici, frigoriferi, forni, piani cottura e piccoli elettrodomestici, coinvolge pmi e storiche aziende come Whirlpool, Electrolux, e Candy. 

Le aziende storiche in crisi

La multinazionale svedese, Electrolux, primo produttore di elettrodomestici del continente, ha in Italia cinque stabilimenti (Solaro, Pordenone, Porcia, Forlì, Susegana) e nel 2012 ha dato lavoro a 5.715 dipendenti. Nel 2012, Electrolux ha visto fallire gli obiettivi produttivi di tutti i suoi stabilimenti italiani, impegnati nella produzione di elettrodomestici destinati al mercato dell’Europa occidentale che non accenna a riprendersi. Il risultato è che dal 2008 ad oggi 1.200 posti di lavoro sono andati perduti. Ad allontanare il rischio di ulteriori riduzioni del personale, c’è un contratto di solidarietà definito da una vertenza con i sindacati siglata nel marzo 2013. In vigore per ora solo nello stabilimento di Susegana, in provincia di Treviso, nei prossimi mesi verrà progressivamente adottato anche negli altri quattro stabilimenti italiani di Electrolux.

Non è migliore la sorte toccata ai dipendenti Whirlpool. Per ora i quattro poli produttivi italiani (Trento, Varese, Siena e Napoli) sono salvi, ma gli esuberi previsti in Italia ammontano a circa 600, per la maggior parte concentrati nel polo produttivo di Varese. Infatti, solo a Cassinetta, storica sede della Ignis di Giovanni Borghi rilevata dalla multinazionale statunitense nel 1991, è stato concordato con i sindacati un piano che prevede 495 esuberi nel biennio 2012-2013.

La crisi del bianco non ha risparmiato il gruppo Candy, multinazionale brianzola fondata cinquant’anni fa da Eden Fumagalli. Il gruppo Candy, sesto produttore di elettrodomestici nel mercato europeo, dà occupazione in Italia a 1.200 dipendenti distribuiti in due poli produttivi: Brugherio, in provincia di Monza e della Brianza, sede storica del gruppo, e Santa Maria Hoè, in provincia di Lecco. Entro la fine del 2013 si prevede di chiudere il polo produttivo lecchese, per un totale di 146 esuberi. Di questi almeno 60 verranno ricollocati a Brugherio, assicura il sindacalista Cgil Pietro Lucatelli.

I numeri dietro la crisi

Domanda in caduta senza precedenti, perdita di competitività internazionale. Per capire le motivazioni dei piani industriale delle aziende italiane basta guardare ai dati forniti dall’Osservatorio strategico compilato ogni quattro anni dal Ceced – l’Associazione nazionale produttori di apparecchi domestici e professionali appartenente a Confindustria – e aggiornato a fine 2012. «La sostenibilità del settore è a rischio» mette in allarme il rapporto. «Negli ultimi tre anni la situazione è drammaticamente peggiorata. Non è più minacciata la sopravvivenza della nostra industria nel medio lungo periodo. È ora minacciata la sopravvivenza nel breve». 

Redditività e produzione. Ed è sempre il Ceced a denunciare la riduzione dei volumi produttivi del settore, tornati nel 2012 ai livelli del 1990-91. «Da 30 milioni di pezzi prodotti nel 2002, la produzione di frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, forni e piani cottura è crollata agli attuali 15 milioni di pezzi».

Costo del lavoro. Per spiegare il calo di produzione e redditività occorre dare un occhio ai fattori su cui si gioca la concorrenza con i competitor stranieri (Francia, Germani ma anche Polonia, Turchia e Cina), costo del lavoro in primis. Perché è questa, secondo il Ceced «la variabile in cui maggiormente si scaricano tutte le inefficienze del sistema Paese». Se a inizio 2000 il costo medio orario del lavoro nei paesi competitori «era inferiore del 20% rispetto a quello italiano», spiega il Ceced, «l’elevata efficienza di fabbrica, le maggiori competenze e la qualità dei prodotti consentivano alle imprese localizzate in Italia di compensare questo deficit». Oggi, continua il rapporto, «il costo medio per ora lavorata dei concorrenti è inferiore al 50% di quello italiano». Senza contare che nel frattempo i paesi in via di sviluppo hanno «ridotto il gap di competenze organizzative e industriali nei confronti delle imprese italiane».

Costo dell’energia. Altro capitolo importante per misurare la distanza tra Italia e competitor è il prezzo dell’energia. Il costo di quella utilizzata dalle nostre imprese, si legge nel rapporto Ceced «risulta mediamente del 30% superiore a quello delle corrispondenti imprese francesi o tedesche».

La competitività internazionale. Il caso della Polonia

Se tra 2000 e 2010 il commercio internazionale del settore è cresciuto a un tasso medio del 10%, allo stesso tempo «la quota di commercio internazionale dei paesi caratterizzati da un costo orario del lavoro inferiore a cinque dollari (Cina per prima) è passata dal 22 al 40 per cento». I grafici mostrano come tra gli anni ’90 e 2010 le esportazioni italiane abbiano risentito di una forte caduta delle quote sui mercati internazionali. Mentre contemporaneamente crollava in tutta l’Europa occidentale la domanda di elettrodomestici: meno 15% circa in quattro anni, tra 2007 e 2011.

Per capire le difficoltà contro cui lottano le aziende Italiane, Ceced propone un confronto con i numeri polacchi. «Un caso paradigmatico», perché in Polonia crescono le competenze mentre i salari restano bassi. Così che tra 2000 e 2008 si assiste a un vero e proprio crollo del costo del lavoro per unità di prodotto, a fronte di una forte crescita della redditività. Dati che spiegano la scelta di delocalizzare fatta da molte multinazionali che hanno acquisito gli storici stabilimenti italiani. 

Cala la spesa privata in Ricerca e sviluppo (R&S)

Quello del bianco è il settore in cui l’Italia è leader per innovazione di prodotti. Tanto che il valore degli elttrodomestici prodotti in Italia è andato crescendo tra 2005 e 2010. Tuttavia, nonostante i forti investimenti fatti tra 2007 e 2008, i dati raccolti dal Ceced mostrano come al crollo della produzione si sia accompagnato negli ultimissimi anni anche un calo, sebbene più lieve, dei soldi spesi in R&S.

Eppure, le sigle sindacali e Confindustria restano convinte che la via per uscire dalla crisi sia quella di continuare ad investire soprattutto nella ricerca. 

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