Continua l’analisi sugli investimenti diretti delle imprese italiane all’estero. Nella prima puntata Saro Capozzoli ha spiegato perchè le nostre Pmi siano più orientate al commercio con l’estero che ad una vera e propria internazionalizzazione. Che invece avrebbe il pregio di creare nuovi posti di lavoro anche in Italia.
Sempre più frequentemente, raggiunta una certa fase di sviluppo del mercato estero, il non essere presenti direttamente all’estero, a presidiare il mercato con una presenza in loco, rende molto più complicato, nel tempo, se non impossibile, esportare i propri prodotti nell’area di riferimento.
È quello che sta accadendo in Cina. Un mercato che è, nonostante tutto, ancora in espansione ma che diventa sempre più esigente e richiede la presenza diretta delle imprese, anche solamente come presenza diretta commerciale.Un esempio che non comporti andare a produrre all’estero ma che richiede una presenza commerciale diretta dei produttori in un paese come la Cina?
Basti vedere cosa accade con il settore dei vini dove paesi come la Francia, Australia e Cile vedono i produttori, sono presenti direttamente nel paese con strutture consortili e coprono assieme più del 75% del mercato cinese, mentre l’Italia che continua prevalentemente a rivolgersi ad agenti e distributori cinesi, a malapena raggiunge il 5% del mercato. Addirittura esistono aziende vinicole italiane che delegano ai propri concorrenti francesi presenti sul mercato, la vendita dei propri prodotti! Come se la Fiat chiedesse alla Renault di vendere, per favore, le proprie automobili in Cina!
La presenza diretta dei produttori di vino con proprie strutture a seguire lo sviluppo del mercato è la chiave per riprendere quote di mercato, ma i produttori italiani non si mettono d’accordo per consorziarsi e continuiamo a perdere posizioni. In Francia esistono consorzi di 200-300 produttori che sono presenti con proprie strutture in Cina e centinaia di dipendenti a seguire le vendite in questo mercato che in poco tempo è diventato il quarto al mondo e a breve sarà il primo. Se non cambieremo registro, sarà impossibile prendere quote maggiori, e non potremo quindi lamentarci se pur essendo il primo produttore di vino, nel Paese siamo sostanzialmente meno importanti dei vini californiani e spagnoli. Questo vorrà dire tagliarsi fuori da un mercato in forte espansione concentrandoci invece su mercati più maturi ma facilmente saturabili. L’inerzia porterà inevitabilmente alla perdita di posti di lavoro a casa nostra a vantaggio delle imprese straniere che dall’altra stanno arrivando in Italia ad acquisire cantine una a una, proprio per approvvigionarsi dei prodotti che noi non siamo stati in grado di far espandere all’estero.
Un altro esempio? Basti pensare all’acqua San Pellegrino, che fintanto è stata in mano italiana è rimasta relegata nei nostri confini, ma una volta passata in mano alla Nestlè ora la si trova ovunque, anche qui in Cina. È anche necessario capire che pensare di continuare a produrre in Italia per servire il mondo è irrealistico e lentamente ci porterà ai margini dei mercati.
Quando si valutano le attività d’internazionalizzazione (che NON vuole dire delocalizzare, bensì espansione all’estero), anche dal punto di vista occupazionale, si deve considerare i posti di lavoro che saranno trasferiti all’estero, ma anche i nuovi posti di lavoro che si verranno a creare presso la casa madre e il mantenimento dei vecchi come conseguenza della maggiore competitività della mother company e degli effetti spillover a livello settoriale.
Gli investimenti all’estero influenzano invece il lavoro non qualificato, diminuendone la domanda e aumentando il divario con il lavoro qualificato in termini di salari. Una convinzione generalizzata è che l’internazionalizzazione abbia distrutto posti di lavoro in patria a favore dei paesi emergenti in cui il costo di lavoro è basso e i diritti sindacali scarsi. Una conseguenza di questa visione sarebbe di imporre barriere alla delocalizzazione per proteggere l’occupazione nazionale: sussidi per chi rimane – come ha deciso Obama – oppure proibizioni di vario tipo. Da notare però che allo stesso tempo le multinazionali americane macinano miliardi in paesi come la Cina, e quello che sta avvenendo ora negli USA non è solo una ricollocazione ma un ritorno a casa, andando a produrre anche negli USA, e nessuno si sognerebbe di abbandonare un mercato così importante per lasciare spazio ai concorrenti, è un ritorno a casa senza però dismettere nei paesi dove le aziende stanno da decenni proliferando e sviluppandosi.
Di recente la Unilever PLC, ha annunciato di volere espandere il proprio business in Cina di 5 volte nei prossimi 10 anni e il 57% del turnover globale viene dalla Cina. L’espansione sarà possibile non andando a investire sulle coste del paese, ma andando a svilupparsi verso il suo interno, dove esistono ancora decenni di sviluppo da creare e mercati ancora da sviluppare. Le aziende USA portano a casa miliardi di euro generati da revenues nei paesi d’oltre oceano e nessuno potrà cambiare questo dato di fatto.
E le nostre grandi imprese dove sono? Posso comprendere che una PMI abbia problemi a trovare risorse a svilupparsi in questi paesi, ma qui in Cina siamo ai margini, rappresentiamo solo il 0,3-0,4 % degli investimenti totali (uno stock di circa 6 miliardi di euro contro investimenti di altri paesi europei che raggiungono e superano questa cifra come dato annuo!) e vorremmo capire, per esempio, che cosa sta facendo la FIAT per penetrare il mercato dopo tentativi goffi di replicare il successo di Volkswagen (l’unico modello fatto in Cina introdotto di recente, la Viaggio, si è rivelato un flop, come era prevedibile).
E nel settore alimentare? Dove stanno le major italiane che potrebbero fare scintille qui in Cina se la smettessero di considerare questo mercato come marginale. Se si escludono casi di eccellenza come nel settore dei salumi e prosciutti (Beretta Salumi e i Grandi Salumifici Italiani che stanno avendo un gran successo), un ampio spettro di prodotti resta in Italia perché pensiamo di poter vendere le mozzarelle spedendole via aerea come anche di vendere pasta fresca e pane dall’Italia. Purtroppo i cinesi si metteranno a produrre molto presto mozzarelle e formaggi, faranno pasta secca (Barilla dove sei?) ed entreranno anche nel settore di quella fresca, proprio perché noi non ci siamo. Il mercato interno è pronto e se esiste una domanda, prima o poi si crea l’offerta. Ci saranno molti investimenti nel settore alimentare per fare un upgrade dell’industria colpita da molti scandali.
I cinesi stanno evolvendo e se non saremo noi presenti a coglierne le opportunità, lo faranno altri. Danone, Nestlè, aziende slovacche e persino coreane e tunisine si stanno rivolgendo verso i nuovi gusti e bisogni e iniziano già ad investire per rispondere alla domanda. Una ragazza coreana si è messa a produrre mozzarelle a Shanghai, un’azienda tunisina sta già producendo pasta fresca e in pochi mesi è già a break even, partendo con piccole produzioni ma con l’intenzione di industrializzare il tutto a breve. E noi? Ci siamo fatti scippare il primato sull’espresso e sulla pizza dagli americani, ma non riusciamo a reagire, se non scoordinati e senza una strategia credibile. L’unico tentativo che poteva essere d’interesse alcuni anni fa, Piazza Italia di Pechino, è stato un fallimento perché è stato fatto tutto quello che si poteva fare per fallire, e ci siamo riusciti molto bene, dopo un anno il sogno si è infranto a causa di approssimazione, dilettantismo e anche un po’ di dolo.
Come si può vedere anche dalla tabella sottostante, l’Italia si trova soltanto al sesto posto per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri complessivi nel 2008, dopo la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, l’Olanda e la Spania. Per far capire la gravità della situazione italiana possiamo confrontarla con l’Olanda, che nel 2001 aveva un PIL pari a 447731 milioni di Euro e che ha investito complessivamente fino al 2008 quasi 200 miliardi di euro mentre l’Italia avendo un PIL di 1248648 milioni di Euro ha investito meno di 100 miliardi.
Gli investimenti esteri diretti complessivi effettuati dai paesi europei nel 2008 (miliardi di Euro). Fonte: Eurostat 2008
Siamo di fronte a scelte di top manager e imprenditori non preparati al cambiamento, mentre la politica resta a guardare paralizzata da beghe di tutt’altro genere e con una visione temporale, quando va bene, che raggiunge solo le prossime elezioni. Ci sono interventi fondamentali da compiere come quelli di ridurre drasticamente la tassazione sul lavoro mettendo più soldi in tasca agli italiani e agli imprenditori e lanciando più investimenti in ricerca e sviluppo che dovrebbero essere detassati per favorirne lo sviluppo. L’Italia e il mondo non sono più quelli di cinque anni fa e se non lo capiamo presto, molto presto, saremo destinati al declino definitivo.
Un’Italia in perenne campagna elettorale e lacerata da conflitti di interessi incrociati, non potrà mai guardare al futuro in maniera costruttiva, il ricambio naturale di tutta la nostra classe dirigente, non solo della politica ma sembra essere l’unica ricetta per trovare una via d’uscita.
Fonti: Eurostat, European Union Foreign Direct Investment Yearbook 2008, European Commission, Eurostat Pocketbooks. European Restructuring Monitor, 2004