*Estratto da Padre Pio, Miracoli e politica nell’Italia del Novecento di Sergio Luzzatto (Einaudi, 2009)
Quel 20 settembre 1918, quando «fra due ali di calca» il nunzio apostolico presso la corte di Baviera aveva varcato le porte del campo di concentramento vicino Hannover, il prigioniero di guerra in grigioverde lo aveva guardato a tutt’occhi, squadrandolo dalla testa ai piedi. «È alto, lungo, con occhiali, ha un cappello da prete di feltro liscio, ma più piccolo e tondo dei soliti, ornato d’un cordone verde e oro; occhiali; naso affilato ed adunco; tunica nera. Apre un ombrello color castano scuro, da prete di campagna; non ha seguito ecclesiastico». Il tenente Carlo Emilio Gadda non aveva voluto perdersi un solo dettaglio della visita al campo di monsignor Eugenio Pacelli.
In effetti, la scena non mancava di elementi singolari. In un giorno del calendario «che segna per noi italiani una data» – l’anniversario della breccia di Porta Pia – era un dignitario del Vaticano che pensava bene di rendere visita ai prigionieri del Regio Esercito, trascuratissimi dal governo di Casa Savoia. Nella camerata A di Celle-Lager, il ritratto di Vittorio Emanuele III aveva un bel mostrarsi, per l’occasione, sotto un baldacchino di carta velina tricolore e una corona reale di carta gialla: l’effigie del remoto monarca era visibilmente inadeguata a competere con l’incarnato carisma del nunzio salito da Monaco per curare le anime degli infelici prigionieri. «Come un branco di popolo», graduati e soldati avevano tenuto dietro a Pacelli, pigiandosi all’inverosimile nella chiesetta del campo (e Gadda con loro, «ritto sopra una panca»). Dopo i salmi intonati dai cappellani militari, il nunzio aveva preso la parola per garantire ai prigionieri che il papa, Benedetto XV, non li dimenticava mai nelle sue preghiere, e per invitarli a offrire le loro sofferenze alla gloria eterna di Nostro Signore. Frasi di circostanza, nelle quali il Gadda reduce da Caporetto, sopravvissuto alla «fine delle fini», aveva creduto tuttavia di cogliere l’eco di una genuina pietà, restandone commosso sino alle lacrime.
Poche settimane più tardi, il 4 novembre, con una disposizione d’animo ben diversa l’ex volontario del Maggio radioso tornerà a mettere piede nella chiesetta di Celle-Lager: per ringraziare Iddio alla notizia di Vittorio Veneto. Nell’intervallo, quarantacinque giorni di non più sperate sorprese militari, con gli eserciti dell’Intesa all’attacco su una varietà di fronti, dal bulgaro al francese, le forze armate degli Imperi centrali ridotte allo stremo, il comandante Diaz spinto quasi giocoforza all’offensiva sul Piave. E di nuovo, il 4 novembre, Gadda vivrà il presente con un occhio fisso sul calendario: stavolta, confessandosi fiero che il sospirato trionfo italiano cadesse proprio nel giorno del suo onomastico, la festa di San Carlo Borromeo. «Religiose coincidenze», si troverà a concludere in quegli stessi giorni il compilatore di un altro genere di journal intime, lui pure ardente patriota, lui pure devotissimo a san Carlo: un prete bergamasco, questo, Angelo Roncalli. «Piccole cose per chi non se ne intende: ma piene di significato per chi segue con rispetto e ricerca la mano del Signore nel segnare le vie degli uomini».
Lontano dalla Germania del nunzio Pacelli, lontano anche dalla Bergamo del reverendo Roncalli, nel convento semivuoto di un paesone del Gargano, anche un frate cappuccino visse il 20 settembre 1918 come una giornata eccezionale: tanto eccezionale che dovette sembrargli ozioso porre mente al calendario, chiedendosi se la coincidenza degli eventi con l’anniversario di Porta Pia non rivelasse essa stessa la mano di Dio. Verso le nove di mattina di quel giorno, mentre da solo si raccoglieva in preghiera davanti a un crocifisso nel coro della a sé «un misterioso personaggio» che perdeva sangue dalle mani, dai piedi e dal costato. Sgomento, il frate trentunenne invocò l’aiuto del Signore. La figura si dileguò all’istante, ma il terrore di padre Pio non poté che aumentare quand’egli scopri che le stigmate della crocifissione di Gesù si erano iscritte sul suo proprio corpo: «mi avvidi che mani, piedi e costato erano traforati e grondavano sangue». «Tutto il mio interno piove sangue e più volte l’occhio è costretto a rassegnarsi a vederlo scorrere anche al di fuori»; «temo di morire dissanguato».
Siderale la distanza tra il 20 settembre di monsignor Pacelli e il 20 settembre di padre Pio: tra l’algida epifania del nunzio entro i fili spinati di un Lager tedesco e la drammatica crocifissione del frate entro le mura di un convento garganico. Eppure, se non le religiose coincidenze che impressionavano allora il reverendo Roncalli, almeno i fili del destino avrebbero finito per intrecciare le vite di questi tre uomini di chiesa. Né Pacelli né Roncalli si sarebbero mai recati a San Giovanni Rotondo: mai avrebbero posato il loro sguardo di pastori sul corpo sofferente del cappuccino con le stigmate. In compenso, entrambi si sarebbero proposti di decifrare –se c’era –il messaggio che il Signore aveva inteso trasmettere al genere umano attraverso le cinque piaghe di un frate. Salvo pervenire, da papi, a spiegazioni opposte. Pio XII e Giovanni XXIII avrebbero molto contato nell’esistenza di padre Pio: il primo da amico, il secondo da nemico.
Le stigmate di padre Pio non arrivavano in un momento come un altro. Se pure il cappuccino aveva testimoniato ormai da anni, nelle lettere ai direttori spirituali, del sentimento che la Passione si andasse rinnovando nel suo stesso corpo, la tempistica dell’evento decisivo trascendeva la sfera dell’esperienza privata per investire il campo della sfera pubblica. Nell’autunno del 1918, le stigmate di padre Pio alludevano a una dinamica epocale.
La Grande Guerra aveva segnato l’ora del ritorno di Cristo sulla terra. Tale almeno l’interpretazione che ne avevano dato, da entrambi i lati delle Alpi, i retori dell’union sacrée, gli alfieri chierici e laici della crociata anti-teutonica. L’elogio politico della sofferenza e la fascinazione spirituale per il dolore erano naturalmente sfociati nell’idea che il conflitto mondiale equivalesse a un interminabile Venerdì Santo, che le indicibili pene dei soldati corrispondessero alle tappe di un calvario collettivo provvidenzialmente destinato alla salvezza del genere umano. Altrettanto indicibili, le pene delle madri dei caduti avevano trovato una rappresentazione diffusa nell’icona letteraria e figurativa della Mater dolorosa: l’Addolorata che regge il Cristo morto nel gesto supremo di elaborazione del lutto, la Pietà. In Italia, era toccato a Gabriele D’Annunzio conferire un massimo di distinzione a questi luoghi comuni della propaganda. Nei suoi Canti della guerra latina, straripanti di citazioni bibliche, il soldato era Cristo, la guerra era la sua Passione. Ma la vertigine dell’imitatio Christi non aveva colto soltanto i poeti laureati. Sin dentro le trincee, nel materico universo dei combattenti, era stato tutto un affollarsi – variamente religioso o superstizioso –dei più diversi simboli cristici. Croci, chiodi, crocifissi: fra il rimbombare dei cannoni e l’esplodere delle granate, la figura di Gesù si era trovata al centro di un urgente quanto ambiguo sistema di segni.
Fine o rinascita, distruzione e resurrezione? L’immensità del trauma rappresentato dall’esperienza di trincea aveva reso confuse le nozioni stesse di vita e di morte. Ossessiva, nei soldati al fronte, la paura di rimanere sepolti vivi. Ricorrente il pensiero di se stessi come morti viventi. Diffusa la leggenda di un ritorno dei caduti. Nel lessico di un poeta italiano traumatizzato dallo shell shock, Clemente Rebora, la Grande Guerra aveva inaugurato per il genere umano una nuova dimensione esistenziale, quella della «vitamorte». Parevano darne conferma, ai quattro angoli dell’Europa, milioni di reduci sfigurati o mutilati: uomini sul viso e sul corpo dei quali una tecnologia militare mai cosi devastante aveva impresso il proprio segno indelebile, le crudeli stigmate della modernità. Alcuni di quei mutilati si prestavano a ostendere le proprie ferite come un ulteriore argomento di propaganda patriottica: in Italia, attraverso personaggi simbolo quali Giuseppe Caradonna o Carlo Delcroix, promessi a un bell’avvenire di gerarchi fascisti e cantori del duce.
Le ferite di padre Pio non avevano nulla di patriotticamente edificante. Il frate cappuccino era rimasto anzi estraneo al trauma della guerra guerreggiata: ancorché arruolato come prete–soldato, era riuscito a vivere il conflitto dal fondo estremo delle retrovie. Nondimeno, certe intense sue parole dell’autunno 1918 riecheggiavano formule dei combattenti. Scrivendo al direttore spirituale all’indomani di Vittorio Veneto, padre Pio non definiva forse la propria condizione come quella di un «vivo morto»? E il frate non aveva forse ragione di sentirsi lui stesso, a suo modo, un sopravvissuto alla più grande delle guerre? Nell’inferno delle trincee sulle Dolomiti e sul Carso, i soldati del Regio Esercito avevano vinto la loro battaglia contro il demonio germanico, ma ne erano rimasti segnati nel corpo e nello spirito. Nell’inferno di una cella conventuale del Gargano, il cappuccino di Pietrelcina aveva vinto la sua battaglia contro le tentazioni del diavolo, ma ne era rimasto segnato nel corpo e nello spirito.
Senonché, le ferite dei reduci e le ferite di padre Pio differivano in qualcosa di essenziale. Le une erano stigmate nel senso metaforico del termine: corrispondevano (secondo la forte immagine di un poeta sfigurato, Nicola Moscardelli) al tatuaggio che la Grande Guerra aveva voluto iscrivere sulle carni di un’intera generazione. Le altre erano stigmate nel senso letterale del termine: corrispondevano al marchio che il Signore aveva voluto iscrivere sulle carni di un singolo individuo. Da qui –per chi voleva crederci –la diversa portata di quelle ferite. Le stigmate metaforiche dei reduci potevano contribuire tutt’al più alle alterne vicende di una storia profana. Le stigmate letterali di padre Pio promettevano di contribuire alle meravigliose vicende di una storia sacra.
Tanto più lo promettevano, in quanto l’autunno del 1918 era una stagione straordinaria nella sensibilità collettiva: enormemente bisognosa di sacro. Non si trattava soltanto della guerra mondiale, che da tempo seminava ovunque la paura, la sofferenza, il lutto: una guerra ormai cosi insopportabile da diffondere per ogni provincia d’Italia le voci più incontrollate sui misteriosi poteri di fanciulli in grado di propiziare la fine del conflitto o sulla miracolosa apparizione di Madonne messaggere di pace. A partire dalla tarda estate di quell’anno, al carico di terrore e di dolore della Grande Guerra si aggiunse un nuovo peso, altrettanto gravoso o più ancora: l’epidemia di influenza «spagnola», che in Italia prese a mietere vittime nell’agosto, e che in sette mesi avrebbe provocato un numero maggiore di morti che tutti i nostri caduti nel conflitto mondiale . Se la guerra aveva decimato gli uomini, la spagnola si accani soprattutto contro le donne, almeno nelle regioni della penisola dove più precaria era l’igiene e più carente l’alimentazione. Tra queste, la Puglia; e tra le province pugliesi, quella di Foggia. Nel solo comune di San Giovanni Rotondo, che non superava i diecimila abitanti, fra settembre e ottobre del 1918 l’epidemia influenzale provocò circa duecento vittime.
Padre Pio ricevette le stigmate quando la morte andava bussando a tutte le case di San Giovanni, del Gargano, della Puglia, dell’Italia, dell’Europa. Dunque, quando eccezionalmente accorate salivano verso i pastori di anime, da parte di ogni agnello del gregge, una preghiera di protezione, una richiesta di intercessione, una domanda di grazia. Beninteso, i ministri di Dio potevano cavarsela come il sacerdote veneto che ai parrocchiani falcidiati dalla spagnola si contentava di spiegare: «abbiamo avuto un carnevale troppo lungo, ora forse segue una più lunga quaresima». Allora come sempre, gli uomini di chiesa disponevano dell’argomento di una contrapposizione necessaria fra bisogni dell’anima e bisogni del corpo, che nei momenti di crisi giustificava a fortiori la raccomandazione di un programma penitenziale. Sta di fatto che agli sgoccioli della Grande Guerra e all’indomani della sua fine, gli uomini e le donne di fede potevano ben reclamare dai pastori di anime qualcosa di più dell’assistenza spirituale garantita nei tempi ordinari. Da buoni cristiani, potevano sperare che un qualche individuo d’eccezione – un santo – riuscisse a liberarli da tutto il male che li circondava: dalla malattia, dalla miseria, dal lutto. Addirittura, come in altri apocalittici momenti nella storia del cristianesimo, potevano convincersi che il Signore fosse disponibile a incarnarsi una seconda volta, per regalare all’umanità peccatrice una nuova redenzione.
La scena madre del 20 settembre 1918 – l’oscuro frate del Gargano che un bel mattino, pregando, viene segnato dalle cinque piaghe di Cristo – va situata entro lo specifico del suo contesto: nell’atmosfera spirituale che si respirava in Italia e in Europa all’uscita dall’ecatombe bellica. Molti secoli innanzi, il trauma della Peste Nera aveva promosso nella sensibilità collettiva una devozione più inquieta che prima, più impaziente, più supplichevole. Qualcosa di simile si verificò all’indomani della Grande Guerra, nel momento genetico della fama di santità di padre Pio. Dal punto di vista del frate e dei suoi direttori di coscienza, le stigmate non erano che l’ultima tappa di un percorso mistico iniziato da anni; nella prospettiva dei fedeli, quelle stigmate rappresentavano un evento altrettanto tempestivo che strabiliante. Cosi, non si dovette attendere a lungo prima che schiere di uomini e di donne prendessero a sollecitare la figura del cappuccino stigmatizzato.
I santi servono essenzialmente a compiere miracoli. Nell’orizzonte d’attesa dei devoti anche padre Pio fu soggetto a questo intrinseco mandato. Ricostruire la storia del frate con le stigmate significa quindi, tra l’altro, ricostruire la storia dei suoi miracoli: guarigioni, apparizioni, conversioni. Una storia da scrivere (non sarà inutile precisarlo) facendo proprio l’atteggiamento degli antropologi, che rinunciano a priori a distinguere la realtà dalla leggenda; o una storia da scrivere alla maniera dei medievisti, agnostici per professione. Diciamolo sin dall’inizio, forte e chiaro: qui, non si tratta di stabilire una volta per tutte se le piaghe sul corpo di padre Pio siano state vere stigmate, né se le opere da lui compiute siano stati veri miracoli. Chi cercasse in questo libro la risposta –affermativa o negativa –a domande di tal genere, farà bene a chiuderlo subito. Qui, le stigmate e i miracoli di padre Pio interessano meno per quanto rivelano di lui che per quanto rivelano del mondo intorno a lui: il variopinto mondo di frati e di preti, di chierici e di laici, di credenti o di atei, di buoni o di cattivi, di astuti o di ingenui, di colti e di ignoranti che nel carattere soprannaturale di quelle stigmate e di quei miracoli hanno creduto, o hanno rifiutato di credere. Quale pratica sociale, la santità comporta rituali d’interazione; i santi contano per come appaiono, non per come sono!
Il possibile margine di equivoco intorno alla maniera appropriata di fare storia di padre Pio contribuisce a spiegare la mancanza di un singolo studio scientifico sopra colui che un intellettuale non bigotto ha definito – flirtando col paradosso – «l’italiano più importante del ventesimo secolo». Di padre Pio esistono innumerevoli agiografie, totalmente prive di qualsivoglia requisito critico»; di lui esistono due o tre biografie (un paio francesi, una americana) le quali, pur muovendo da un pregiudizio devoto, hanno qualche merito documentari sul “fenomeno padre Pio”, cioè sull’esplosione del culto durante gli ultimi lustri di vita del frate e nei decenni seguiti alla sua morte, esistono alcuni buoni lavori di antropologia culturale e di sociologia religiosa». Ma sul mondo di padre Pio non esiste alcun libro di storia: quasi si dovesse avere vergogna di elevare il cappuccino stigmatizzato e i suoi fedeli alla dignità di personaggi storici. Evidentemente, quanto risulta pacifico agli studiosi del Medioevo – il fatto che indagare le credenze non equivale a confessarsi creduloni –rimane ostico da comprendere agli studiosi del Novecento.
Troppo in fretta, verso la fine del diciannovesimo secolo, l’intellighenzia laica aveva diagnosticato il disincanto del mondo. Oggi, oltre un secolo dopo, tutto intorno a noi attesta il bisogno diffuso di riconoscere nell’immanente prosaicità del quotidiano la poesia di una qualche trascendenza. Non fosse che per questo, sarebbe insensato liquidare certe esperienze novecentesche di religiosità popolare come i patetici cascami di sensibilità condannate a morte dalla storia. La secolarizzazione non ha ucciso la religione: né avrebbe potuto farlo, dal momento che il progresso politico, culturale, scientifico non ha cancellato dalle nostre vite la dimensione del male, e con essa – per molti –l’esigenza di collocare la sventura entro la cornice di un disegno provvidenziale. Storie come quella di padre Pio non si capiscono senza tenere a mente un giudizioso bilancio di Ignazio Silone: i sindacati non bastano per fare a meno dei santi. Perché «la povera gente è sempre in paura». La malattia, l’alluvione, la guerra stanno sempre in agguato, e non c’è tutela sindacale che tenga, «non si sta mica più sicuri di prima, la paura è rimasta». Soprattutto fra gli umili, il progresso materiale non ha ucciso la pietà, intesa come bisogno spirituale di rassicurazione e di protezione.
In un’Italia del Novecento che si era potuto credere disincantata, milioni e milioni di uomini e donne hanno vissuto la propria vita da battezzati. Pensandosi non solo nella storia dell’umanità, ma nella storia della salvezza. Facendone una questione non solo di progresso, ma di redenzione. Da parte sua, cosi nel Novecento come nei secoli precedenti la Chiesa cattolica ha risposto con un’offerta alla domanda di liturgie rassicuranti e di culti protettivi, di antidolorifici sociali. In fondo, che cosa aveva garantito il trionfo cinquecentesco dell’Inquisizione romana sopra le istanze di evangelismo pur diffuse in Italia, se non la disponibilità della Chiesa a mantenere saldo il legame tra il clero e la pietà popolare? Su quale scoglio erano naufragati i progetti di riforma ecclesiastica, se non sul groviglio che intrecciava i bisogni di conforto e di speranza della comunità dei credenti agli interessi di prestigio e di denaro dei frati e dei preti? E su cosa si era fondata, a partire dal Seicento, la disciplina vaticana delle canonizzazioni, se non sull’esigenza avvertita dalla Chiesa stessa di regolare l’enorme consumo di devozioni, di gestire l’inesauribile economia della santità? In tal senso, la storia di padre Pio di Pietrelcina rappresenta niente più che l’ultimo anello di una catena assai lunga.