Ma siamo davvero di fronte a una “primavera turca”?

Per il ministro Bonino la rivolta somiglia di più a Occupy Wall Street

Il braccio di ferro tra manifestanti e governo islamico-conservatore non accenna a diminuire nonostante le scuse del Vice Premier Bulent Arinç ai feriti e l’ammissione di una reazione troppo dura della polizia. Perso ormai l’iniziale carattere ambientalista, la protesta rappresenta la più grande manifestazione di dissenso contro il governo dell’AKP che si sia mai registrata coinvolgendo migliaia di manifestanti in 67 città. Le dimensioni e le caratteristiche di questa ondata di protesta sollevano numerosi quesiti ai quali gli esperti Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) hanno cercato di dare una risposta.

Siamo di fronte ad una “Primavera Turca”?
Nonostante alcuni abbiano descritto gli scontri in Turchia come la nascita di una sorta di “primavera turca”, Stefano Torelli, Ispi Research Fellow, considera questa definizione fuorviante. Nonostante le critiche, la Turchia è e rimane un esempio virtuoso di sistema democratico e liberale all’interno del quadro mediorientale; Erdogan non può essere paragonato ad Assad o a Gheddafi e risulta difficile immaginare una reazione del governo che vada oltre il livello di repressione – di per sé già inaccettabile per gli standard europei – già dimostrato. Non sembra essere in pericolo la tenuta della Turchia come sistema democratico, quanto piuttosto i metodi politici adottati dal partito di maggioranza. Il primo ministro ha dovuto difendersi da accuse come quella di essere un dittatore, ancor prima che un islamista e, in questo contesto, la polarizzazione tra laici e sostenitori dell’AKP torna, ma solo a un livello secondario. In questo senso è una protesta più simile a quella degli Indignados in Spagna o Occupy Wall Street, sebbene quelle fossero più mosse da motivi economici. Ciò cui si assiste sembra essere la crisi di un partito e di un modello di governo, più che di un Paese, ma allo stesso tempo va detto che l’opposizione, attualmente concentrata soprattutto intorno al CHP, deve dimostrarsi capace di rappresentare una valida alternativa all’AKP, altrimenti continuerà ad esservi quella mancanza di copertura del vuoto creatosi intorno al partito di governo che ha caratterizzato gli ultimi 10 anni di vita politica turca.

Perché si parla di deriva autoritaria di Erdogan?
Alle elezioni del 2011, l’AKP ha ottenuto quasi il 50% dei voti, una percentuale altissima e non paragonabile al consenso di alcun partito in Europa. Il governo, a questo punto, sembra sfruttare la propria legittimità per giustificare le proprie scelte politiche osteggiate dall’opposizione. Uno dei punti maggiormente dibattuti riguarda la riforma costituzionale. Erdogan vorrebbe attuare una riforma in senso presidenziale, con l’obiettivo di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali previste per il 2014. Qualora non dovesse passare il progetto di modifica con una maggioranza condivisa, Erdogan ha minacciato di ignorare la commissione parlamentare e procedere con la sua maggioranza. Sebbene ciò sia difficile, anche per fronti di opposizione interni all’AKP, la questione è emblematica delle modalità di governo di Erdogan. La legge recentemente approvata sulla limitazione alla vendita degli alcolici, riflette la stessa attitudine: nonostante le proteste dell’opposizione la legge è stata scritta e approvata nel giro di due settimane. Non sembra trattarsi, dunque, di un sistema non democratico, ma di un partito che, grazie all’ampissimo consenso elettorale, prende spesso decisioni in maniera autonoma e senza dialogare con le opposizioni.

Cosa non funziona nel sistema di governo turco?
In Turchia la democrazia non è in pericolo per via dell’islamizzazione del paese – aspetto su cui si sono concentrati molti detrattori di Erdogan in questi dieci anni – ma per la deriva autoritaria che sembra aver colpito un partito troppo forte. Del resto, continua Torelli si tratta di un rischio che si corre in tutti i sistemi democratici, laddove non si siano sviluppati gli adeguati anticorpi strutturali. Uno di questi, potrebbe essere l’abbassamento della soglia di ingresso in parlamento, attualmente fermo al 10%: una percentuale altissima che fa sì che solo tre partiti siano attualmente rappresentati. Il processo di democratizzazione della Turchia ha sicuramente compiuto progressi inconfutabili negli ultimi decenni, ma l’attuale sistema, così come si presenta, ha ancora delle falle da coprire. Gli scontri di questi giorni mettono in evidenza le mancanze del sistema democratico turco, più che metterne davvero in dubbio la sua esistenza.

Come si ripercuote la questione delle proteste sulla politica estera della Turchia?
La politica estera della Turchia è già in discussione in generale dall’inizio delle cosiddette “primavere arabe”, da quando cioè è venuto meno il principio dello “zero problemi con i vicini” e Ankara non è stata in grado di porre un freno alle violenze in Siria. Erdogan è accusato di aver “settarizzato” la propria politica estera, favorendo gli elementi sunniti contro quelli sciiti. Sicuramente l’AKP dovrà cambiare registro e prestare più ascolto alle istanze di parte della popolazione e dell’opposizione, perché soprattutto agli occhi dell’Europa e degli Stati Uniti Erdogan rischia di perdere credibilità come modello di riferimento per il mondo mediorientale. Sul fronte del Medio Oriente, l’AKP già ha messo in discussione uno dei princìpi cardine della dottrina kemalista, vale a dire il non coinvolgimento in affari esteri, con l’appoggio ai ribelli siriani. Nel caso della Siria, le proteste sono strumentalizzate dal regime di Assad, che paradossalmente presenta Erdogan come un politico che reprime i propri cittadini. Il fatto che Erdogan si presenti come modello di riferimento e, allo stesso tempo, si dimostri così intransigente in Turchia rispetto alle istanze dell’opposizione, può sollevare dubbi sulla reale capacità di fungere da modello.

Le proteste porteranno alle dimissioni di Erdogan?
In questi giorni la Turchia che si oppone a Erdogan ha riscoperto l’attivismo politico, dopo anni di rassegnazione silenziosa e di sconfitte elettorali. A Taksim ci sono kemalisti, anarchici, nazionalisti, islamisti di sinistra e gli ultras del Galatasasay del Fenerbaçhe e del Besiktas, nemici giurati negli stadi, ma uniti nella protesta contro la polizia. Perfino diversi sostenitori ed esponenti dell’AKP chiedono a Erdogan di dialogare con i manifestanti. Qualcuno spera che le proteste possano addirittura portare alle dimissioni di Erdogan. Una speranza però, sostiene Matteo Colombo, giornalista freelance, che si scontra con il sostegno per il primo ministro che caratterizza ampi strati della popolazione, soprattutto quelli che hanno beneficiato della crescita economica di questi anni.

È difficile che coloro che si sono arricchiti sotto Erdogan decidano ora di abbandonarlo, troppi sono gli interessi che legano questi gruppi al governo dell’AKP. Tuttavia le proteste di questi giorni rappresentano un rifiuto del sistema economico e politico di questi anni, basato sull’alleanza tra chi vuole una politica più ispirata ai valori islamici e chi chiede meno tasse. Questo modello di sviluppo ha garantito la crescita della Turchia e il successo dell’AKP, ma al prezzo di fare ammalare la democrazia turca di autoritarismo.

Articolo originariamente pubblicato su ispionline.it

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