“Mamma è in prigione”: la femminilità dietro le sbarre

L’ultimo lavoro simile risale al 1990

«Quando mi hanno arrestata era quasi mezzanotte, mio figlio di quattro anni dormiva nel letto con me. L’ho svegliato, ho cercato di tranquillizzarlo, ma gli agenti mi strattonavano e lui si è messo a piangere. Mi hanno portata in questura e abbiamo passato lì la notte». Susanna, 23 anni, vive da 28 mesi nel carcere di Empoli. L’hanno arrestata mentre rubava del parmigiano in un supermercato. Federico, il suo unico figlio, è troppo grande per stare in prigione con lei. Natasha invece vive nel carcere di Rebibbia e ha preferito tenere con sé la sua piccola di due anni, per evitarle il trauma del distacco. Così come hanno scelto di fare decine di donne che Cristina Scanu, giornalista della trasmissione L’ultima parola di RaiDue, ha incontrato in un viaggio lungo un anno nelle sezioni femminili delle carceri del nostro Paese. Storie che ha raccolto nel libro Mamma è in prigione (JacaBook, 15 euro, 222 pagine), un testo prezioso che fa il punto sulla situazione delle donne detenute in Italia. Anche perché «l’ultimo libro sul tema risale al 1990», commenta l’autrice. 

A marzo le donne in cella erano 2.847, a fronte di quasi 63mila uomini detenuti. Circa il 5%, il 90% delle quali è madre. I figli in carcere, che potranno restare con le loro mamme fino ai tre anni, sono una settantina. Nel 2011 la legge 62 ha modificato l’ordinamento carcerario del 1975, estendendo fino a sei anni l’età dei bambini incarcerati con le madri. A patto però che vivano in istituti a custodia attenuata senza celle né secondini in divisa. Di questi istituti, però, al momento ne esiste solo uno, a Milano. Di altri, neanche l’ombra. E i piccoli continuano ogni giorno a svegliarsi, giocare, mangiare e addormentarsi al suono dei cancelli che si chiudono alle loro spalle. 

Cristina Scanu ha visitato le sezioni femminili di dieci strutture, da Bollate (Milano) a Firenze Sollicciano, da Rebibbia (Roma) alla casa circondariale femminile di Pozzuoli (Napoli). E anche l’istituto a custodia attenuata di Milano, Icam. «Che in confronto alle altre strutture che ho visitato è una meraviglia», commenta la giornalista. Per ognuna delle strutture Scanu ha affrontato tutte le procedure burocratiche per entrare. Uno, due, tre, dieci volte. «Dal primo carcere che ho visitato sono uscita quasi in lacrime», racconta, «ho incontrato soprattutto persone che vengono da contesti sociali disagiati, persone che a trent’anni hanno già un carico pazzesco sulle spalle. La maggior parte sono immigrate che del nostro Paese hanno conosciuto solo l’aeroporto e il carcere». 

Del suo viaggio nelle sezioni femminili, Cristina racconta di una situazione «terrificante» delle carceri italiane. «Certo ci sono sezioni più curate come l’asilo nido di Rebibbia, tutto colorato e ben curato, e le sezioni più fatiscenti, come le celle di Sollicciano, con i soffitti che trasudano di umido. Per non parlare dei problemi di sovraffollamento: a Rebibbia le donne con i bambini per un periodo sono state costrette a dormire sui lettini del pronto soccorso». 

«È il carcere», ripete Cristina più volte. E «la povertà è il filo conduttore». Soprattutto «per le straniere, che sono la maggioranza delle detenute. Perché le italiane nella maggior parte dei casi hanno una casa dove scontare gli arresti domiciliari». Donne che si sono macchiate soprattutto di «reati piccoli, furtarelli, piccolo spaccio o rapine fatte con i coniugi, che magari stanno scontando la stessa pena per lo stesso reato».

E poi ci sono quelle che invece i mariti li hanno lasciati fuori, da soli. O con i bambini. Quelle che fanno le “mamme a distanza”. Hanno diritto a sei ore di colloquio al mese. «Alcuni mariti vanno a trovarle, altri se ne lavano le mani anche se in carcere con la moglie c’è il figlio», racconta Cristina. «Le madri libere che accompagnano i bambini a trovare il papà sono molte, gli uomini che fanno lo stesso sono pochi. Così come è molto comune che la moglie porti al marito il cosiddetto “pacco”, con la biancheria pulita e le provviste alimentari. Il contrario è molto raro». 

Ma non tutte le “mamme a distanza” riescono a dire la verità ai propri bambini sul perché di questa distanza. «Molte dicono di essere in ospedale, per la paura di venire colpevolizzate, e poi li chiamano una volta a settimana». E poi ci sono quelle che invece con i propri figli, fino a tre anni, condividono la cella e le sbarre. «Questi bambini hanno degli sguardi spaventati, piangono molto, fanno fatica ad addormentarsi, imparano a parlare tardi, a camminare tardi. I segni della detenzione gli restano per tutta la vita». Non solo: «Molti studi dicono che per i bambini nati o che hanno vissuto in carcere con le mamme la probabilità di andare in carcere è cinque volte più alta». E passati i tre anni arriva «lo strazio della separazione, che è un trauma in più».

E dopo il carcere? «La maggior parte di queste donne fa fatica a reinserirsi dopo la detenzione. A meno che non camuffino il curriculum, è difficile che qualcuno le assuma vedendo un buco di due-tre anni. Né ci sono incentivi o agevolazioni per gli imprenditori che assumono i detenuti. Solo nelle cooperative sociali di tipo B si può trovare un’occupazione. In più, le donne sono penalizzate rispetto agli uomini, perché essendo di meno ci sono minori investimenti per corsi di formazioni o di preparazione al lavoro in carcere. È più probabile che venga finanziato un corso di falegnameria e non uno di sartoria». 

Ma la femminilità, in carcere, dove va a finire? «Maternità negata, affettività negata. Sessualità negata. Accessori negati: piccoli ma importanti frammenti di femminilità rinchiusi nell’ufficio valori. Mi sarei più sentita donna in carcere? Avrei più sentito la mia identità? Un’identità che solo il pacco di assorbenti, incluso nel kit distribuito ai nuovi giunti, continuava a ricordarmi. Fino a che, una mattina, mi sono svegliata e mi sono guardata allo specchio: una faccia gonfia, due sopracciglia folte, una ricrescita bianca: ero un mostro!». È una delle testimonianze raccolte da Cristina. Che aggiunge: «Solo con un nuovo regolamento del 2000 le donne possono avere uno specchio infrangibile in cella e possono acquistare smalti, shampoo colorati, rossetti e creme, e in alcuni istituti c’è anche il parrucchiere. Ovviamente a pagamento». 

E poi ci sono le altre donne, quelle che devono sorvegliare: le agenti della polizia penitenziaria che vivono con le detenute, ma che sono libere. Donne, come loro, con le quali molto spesso si instaurano rapporti umani. «Ne ho incontrate tante, lamentano di essere in poche, ma anche di vivere in condizioni pessime. Perché se nel carcere d’estate i condizionatori non funzionano, fa caldo ai detenuti ma anche agli agenti. Si tratta spesso di persone che vivono lontane dalle famiglie, molte sono meridionali. E guadagnano poco. Sono donne molto attente e sensibili, che nella maggior parte dei casi sono anche madri. Ma il tasso di suicidi, anche tra loro, è altissimo». 

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