Nelle edicole milanesi c’è un libello della Newton & Compton, per altro godibilissimo, s’intitola le «101 cose da fare a Milano almeno una volta nella vita». Scorrendolo con attenzione ci si può rendere conto che “fare il Sindaco” non è tra quelle contemplate. Purtroppo non è nemmeno dato sapere se l’editore l’abbia esclusa nella consapevolezza che gestire una grande città sempre in cambiamento è un vaste programme. Sta di fatto che tra i palazzi meneghini corre un venticello sottile, che racconta di un Giuliano Pisapia sconfortato e stufo della sua missione di Sindaco, la quale oltre a non stare scritta nel manualetto di cui sopra, non è neppure dettata da alcuna ricetta medica.
I mal di pancia di un sindaco, solo chi lo è stato può saperlo, arrivano dagli spifferi di una porta lasciata aperta da un assessore uscito (Stefano Boeri) – o da un altro che è scontento (Franco D’Alfonso) –, dai soldi che non bastano mai (il bilancio comunale messo a dieta dall’ex assessore Tabacci) o da un progetto faraonico (Expo 2015) perennemente in ritardo e che promette di partorire topolini. Oppure ancora da una corazzata politica (la sinistra che doveva liberare la città dal berlusconismo) che si pensava fosse amore e si è invece rivelata un calesse. Fare il Sindaco è difficile per queste ragioni in fondo soggettive e perdonabili, ed altre ben più oggettive e comuni, non meno perdonabili, legate a doppio filo alla differenza tra i desiderata di un programma elettorale ambizioso – chi ne ha uno scontato? – e i conti con la realtà.
Di tutte le colpe però, va detto che il Sindaco è quello a cui generalmente ne andrebbero attribuite il meno possibile, proprio per l’oggettiva difficoltà, si diceva, di tenere insieme tutto e tutti nel maggior equilibrio e col minor equilibrismo, e di «fare la guerra con i soldati che si hanno», per citare Giulio Andreotti. In questi termini, fino ad oggi, Pisapia ce l‘ha fatta senza danni visibili (le polemiche sulla Sea attraversano almeno le ultime tre giunte meneghine) o manchevolezze tangibili. Senza infamia senza lode, si sarebbe detto un tempo. Ma c’è un problema: si sta squagliando sotto questo primo sole di un’estate tardiva, l’arcobaleno che si era intravisto sopra Piazza Duomo il giorno della vittoria arancione. Ricordate, la forza gentile? Sembra ormai una vita fa.
«Milano è sporca, meglio Roma», ha detto l’altro giorno l’ambasciatore del made in Italy nel mondo, quel Giorgio Armani che rappresenta l’elettorato milanese élitario. Poi, al «silenzio di Milano» e la sua «surreale atmosfera» di quel Marco Vitale tra i più convinti sostenitori della campagna arancione, si aggiungano gli ultimi tagli di bilancio agli incentivi agli anziani, ed ecco che il gioco è fatto. Il vetro è rotto. Anzi il tabù di chi viene dopo Berlusconi e Lady Moratti e che due anni era riuscito a tenere insieme alto e basso. Da una parte infatti viene a mancare il sostegno del prefisso “20121”, la fascia protetta dei radical chic, la circoscrizione “bene” tra Bastioni e quadrilateri vari; dall’altra quella della Milano che ha meno, che soffre ed arranca. Quella Milano senza lavoro, piegata dalla crisi che quando chiede sicurezza non lo fa perché è leghista, ma perché «prova tu ad uscire col passeggino alle otto di sera con quelli che ti guardano in cagnesco».
La Milano che lavora non ha infatti tempo per capire le beghe di un Pd che forse questa volta ha trovato un’identità, ma gli manca di certo la grinta (e le idee). Non ha la pazienza per leggere per quindici giorni delle vicissitudini, affascinanti solo per gli addetti ai lavori, di un teatro alla Scala in cerca di una guida che faccia contenti tutti, con il bilancino e i poteri seduti al tavolo di quelli che contano. Questa Milano non ha voglia delle distrazioni sull’elezione diretta del Sindaco dell’Area Metropolitana, quando invece i pericoli veri sarebbero tra le pieghe dell’ingegneria costituzionale – leggi gli errori della Riforma del Titolo V – e dovrebbero essere dibattuti in primis dagli esperti della materia. La politica milanese è soprattutto questa, a parte qualche sparuto gruppo di giovani che si arrabatta su progetti ambiziosi e fattivi come le smart city e la mobilità, che però non ha una precisa identità politica.
Mentre gli altri discutono, di problemi pratici, nel tourbillon del day by day, se ne risolve invece uno per uno, come si può, e con le risorse che si hanno. Ed è questo il primo lavoro di un Sindaco. Ma dietro è venuto a mancare qualcosa. La visione, che non è l’acqua che il sindaco dovrebbe portare alla politica, quanto viceversa, quella che la politica dovrebbe portare a lui. Ecco allora che si comprende la lettera di un D’Alfonso qualsiasi e, dopo averla epurata da verbosità e disordinato inchiostro in eccesso, si scorge la tagliente e lucida verità di una politica, quella che dovrebbe stare dietro al Sindaco per alimentarlo con idee e progetti, non certo la voglia di resistere, senza più spinta e visione. Senza il “sogno”, direbbe il Crozza – Briatore.
Già, il sogno. Perché la furia omicida di un Kabobo, la rapina spettacolare ad un gioielliere in via dell’Orso,l’incidente del tram, l’approvazione all’ultimo minuto della delibera o i soldi trovati tra le pieghe di un bilancio sempre più scarno sono, tra le tante cose dei sindaci, quelle che in fondo capitano a tutte le latitudini e ad ogni colore politico (e che poi si dimenticano). Se invece manca la spinta in avanti, il progetto a lungo termine, manca tutto.
Forse eravamo abituati ad altre giunte, che si spaccavano perché qualcuno da Roma tirava la cordicella, agli assessori che saltavano perché si opponevano a qualche interesse particolare. E invece a questo giro ci tocca una giunta dal “pensiero debole”, così simile alla sinistra nazionale, che perde i pezzi per incomprensioni, fa scintille per idee diverse, mentre la politica è decidere (nel breve periodo), e progettare (nel lungo). A Milano è andata più o meno bene fino ad oggi (specie se paragonata all’altra rivoluzione arancione, quella napoletana di De Magistris), perché questo vuoto è stato riempito da un Sindaco gentile, forte due anni fa di un plebiscito dei milanesi. Ma fino a quando può durare, se il sogno si è ormai sbiadito?