Per un italiano su tre la carità è diventata un lusso

Colmegna: «Vince il “si salvi chi può”»

Meno propensi a finanziare opere di carità ma non solo. Gli italiani tra 2005 e 2013 sono diventati più egoisti. Lo racconta un’indagine fatta da AstraRicerche per la Casa della carità di Milano che, a distanza di otto anni, è tornata a intervistare un campione di persone sul rapporto con la carità, quella che ormai per il 65% circa dei connazionali è «un modo di essere umani, solidali» e che solo il 21,4% ne fa anche un fatto religioso, «un modo di essere coerenti con la propria fede».

«Abbiamo chiesto se la crisi abbia determinato una caduta di risparmi tale da non consentire più di aiutare gli altri»spiega Enrico Finzi, presidente di AstraRicerche. «Ne è uscito che il 23% circa degli italiani non riesce più a farlo. Un dato sconvolgente se si pensa che la totalità di chi è attivo nella carità – non necessariamente con finanziamenti in denaro ma anche con attività di volontariato, ad esempio – è il 64% del totale. Significa quindi che più di un terzo di italiani non fa più opere di carità per colpa della crisi».
Un fenomeno concentrato per lo più nel Lazio e al Sud, tale da segnalare l’aggravarsi di una «disuguaglianza che è anche territoriale, non solo sociale», continua Finzi.

E se l’Italia resta comunque un paese per lo più solidale (la maggioranza degli intervistati è considerata «attiva» sul piano delle opere di carità), confrontando i dati del 2013 con quelli del 2005 si scopre invece che «gli attivi» sono calati del 15 per cento. «Abbiamo stilato un elenco di attività di carità e costruito un indice secondo cui chi svolge almeno due di questa attività è definibile “attivo”. Se nel 2005 erano il 69%, ora sono il 54%. 

«Sulla base dei dati raccolti abbiamo diviso gli italiani in sei tipologie, dal più “caritatevole” a quello meno. I tre tipi impegnati per davvero in opere di solidarietà sono in tutto il 46% circa, dato che corregge in negativo il 54% circa di chi abbiamo considerato «attivo» nel primo grafico. Il 18,3% degli italiani è contro la solidarietà. «Non ne fa un fatto di crisi economica», spiega Finzi, «perché sono i più ricchi di tutti. Sono solo lontani, ostili al tema. Poi ci sono quelli che stanno a metà, tra l’ostilità e l’entusiasmo. Sono quelli che fanno carità all’acqua di rose, senza capirne molto. Gli unici che contano, quelli “con il cuore caldo” e che fanno della solidarietà un principio di vita sono solo quelli che abbiamo chiamato «semi fautori», «fan» e «super fan».

Ma c’è soprattutto un dato che segnala la «regressione culturale» del Paese e il crescente grado di egoismo. Perché in quel 15% in meno non c’è solo chi non fa più carità per via della diminuzione del reddito. Per verificarlo, Finzi e il suo gruppo di ricerca hanno sottoposto una serie di domande agli intervistati da cui è emerso che, a differenza che in passato, ora «si rivendica senza vergogna il non aiutare gli altri con motivazioni come “pago le tasse, ho fatto quel che devo, ora se ne occupi lo Stato, non serve anche il mio aiuto”», racconta Finzi che parla di crescita di un «egoismo teorizzato, quello esplicitato, che non si vergogna di manifestarsi». E avanza una spiegazione. «Faccio ricerche dal 1981, in questi 32 anni ho intervistato gli italiani su gay, lesbiche, preti, razzismo. Prima la gente non si dichiarava con facilità razzista. Oggi invece abbiamo gettato la maschera e non fatichiamo a dichiarare la nostra scarsa sensibilità».

Una delle domande del questionario chiedeva di esprimere con un voto da 1 a 10 il grado di carità meritato da una certa tipologia di persone, nel caso in cui si fossero trovate in grave difficoltà. Dai bambini, alle prostitute ai rom. «Era un trabocchetto», spiega Finzi. «Essendo tutte in grave difficoltà, avrebbero meritato tutte un 10 pieno, senza distinzioni». E invece gli intervistati hanno costruito, senza saperlo, una spaccato sociale. «Ne esce un quadro che dà i brividi. Una generosità selettiva e politicamente condizionata. Avere demonizzato alcuni gruppi umani ha finito per rendere insensibile il cuore degli italiani». 

Un’Italia al chiaro-scuro. Che, se mantiene tesori di solidarietà (un italiano su due resta comunque attivo nella solidarietà), è anche permeata di egoismi.
Ne è convinto anche Don Virgino Colmegna, il presidente della Fondazione Casa della carità e committente della ricerca. «Da sempre dico che quella che stiamo vivendo è prima di tutto una crisi culturale, di relazioni, di socialità. In cui l’altro è visto come un concorrente, un rivale e non un alleato in un rapporto di reciprocità. L’effetto è quello di una generale chiusura nell’individualità, nel “si salvi chi può”».

Frutto della crisi economica, che moltiplica, dice Colmegna, «le tentazioni di difesa», ma che colpisce anche chi ha bisogno di aiuto, «con depressione, solitudine, sofferenza crescenti». Per invertire la rotta, suggerisce Colmegna, «dobbiamo moltiplicare i luoghi di socialità e intervenire con competenza nelle situazioni di bisogno, pensati per la persona, e non per moltiplicare i servizi stessi».   

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