Che non si tratti solo di uno scontro sul destino di un parco urbano, è chiaro a tutti. Gli scontri nel quartiere di Taksim, che hanno provocato tre morti fra i manifestanti, nascono da una profonda contestazione al governo di Recep Tayyip Erdogan. «C’è il timore, nelle classi di giovani turchi laici, di una maggiore deriva islamica e, soprattutto, autoritaria del governo» spiega Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Intenazionali. Una lacerazione sociale «che non avrà ricadute profonde nella stabilità delle istituzioni: non ci saranno a breve cambi o capovolgimenti di regime», continua.
E allora, va aggiunto, se il problema è interno, non ci sono legami tra queste manifestazioni e le primavere arabe di qualche anno fa. «Non c’entrano nulla», spiega Giorgio Del Zanna, docente all’Università Cattolica di Milano, dove insegna di Storia dell’Europa Orientale. Anche Margelletti è del tutto d’accordo. «La Turchia è un caso particolare e del tutto diverso. Ha una storia propria, non ha mai avuto colonizzazioni e, per essere precisi, non è nemmeno un paese arabo. Anche dal punto di vista religioso ci sono forti differenze», spiegano entrambi.
Il fatto che la Turchia guardi al Medioriente è parte integrante del suo passato «e del ruolo che ha sempre avuto nella storia della regione», dall’Impero ottomano in poi. «La Turchia è stata un impero e si muove ancora come tale», spiega Margelletti. Una vocazione geopolitica, aggiunge Del Zanna, «che ha ripreso dal 1991 in poi, dopo il crollo del blocco sovietico. Da attore importante della regione, ha ritrovato il suo spazio e il suo obiettivo. Una novità, in realtà, è il passaggio verso un atteggiamento filo-arabo, che ha preso il posto di un precedente orientamento filo-israeliano». Il tutto è alla base anche della posizione attenta nei confronti del conflitto in Siria, che va oltre la questione dei confini (e dei profughi) ma riguarda il ruolo di protagonista che, ormai, la Turchia ha scelto di giocare.
È sbagliato, spiega Margelletta, «attribuire all’Unione Europea responsabilità di una svolta conservatrice e islamica da parte di Ankara». In generale, perché le posizioni dei vari paesi erano diverse rispetto ad una integrazione della Turchia in Europa: «l’Italia era favorevolissima, a differenza di Francia e Germania». E, in particolare, «la questione riguardava anche una serie di riforme e modifiche importanti che erano richieste dai parametri europei». Resta il fatto che, spiega Del Zanna, «per la Turchia è più importante ragionare da attore globale, e questa cosa sembra distante dalle visioni di un’Europa ancora troppo divisa». Collegare svolte politiche conservatrici al mancato ingresso nella Ue è una forzatura. Anche perché – sottolinea – la Turchia «è un paese musulmano, lo è sempre stato. Rispetto ai paesi arabi è laico, ha una tradizione democratica fortissima. In questo periodo non è in atto una re-islamizzazione, ma un ri-equilibrio delle tendenze della società. La politica di Erdogan è insieme post-islamista e post-kemalista. Non vuole essere solo laica o religiosa, ma contemperare le due cose».
In Turchia, allora, «non è vero che le classi più abbienti e occidentalizzate mandano le figlie a studiare all’estero perché non debbano mettere il velo». Non esiste nessun obbligo a farlo: al contrario, il velo era proibito fino a qualche anno fa ed Erdogan ha deciso di renderlo legale, «ma non lo ha imposto». In sostanza, il timore di uno scivolamento verso un «modello iraniano, cosa di cui si discute molto, non appare fondato»: la Turchia «non è certo una teocrazia», spigano. E anche se «Istanbul non è rappresentativa del paese», proprio perché sono presenti gli elementi più dinamici e laici della società, «la battaglia – conclude Margelletti – ha un impianto politico interno contrario all’autoritarismo del governo», cui partecipa «un forte movimento di opposizione». Ma non avrà effetti destabilizzanti.