“Ridò vita alle macchine su cui scrissero capolavori”

La storia di Ermanno Marzorati

Nel sottofondo si sente il ticchettio di una macchina per scrivere. Non è strano: Ermanno Marzorati, nel suo studio di Santa Monica, a Los Angeles, ne è circondato. Il suo mestiere, da dieci anni a questa parte, è ripararle. «E ho tantissimo lavoro da fare. Per i prossimi due mesi sono pieno, temo che resterò behind my schedule». Ma è contento, sorride in un italiano ormai colorato di termini e cadenza inglese.

Le macchine per scrivere sono uscite di produzione quasi in tutto il mondo. Ma, a sorpresa, aumenta il numero di chi, in certi casi, le preferisce ai computer e agli iPad. Le ripesca nelle soffitte o sulle bancarelle, decide di riaggiustarle e rimetterle in uso. E per questo le affida a Marzorati. «Ci sono anche tanti collezionisti, però», spiega. Nella sua lista può contare milionari e star di Hollywood, come ad esempio Tom Hanks, che definisce un nice guy «Proprio oggi sono di fretta perché devo finire due macchine per lui», che possiede almeno 200 modelli, «è molto attento, li prova tutti, e alcuni li usa anche per scrivere». Una mania. «Chi volesse entrare nelle sue grazie, adesso, sa cosa regalargli».

Marzorati, classe 1945, è arrivato a Los Angeles nel 1969, per non muoversi più. «Ma sono nato a Milano, per la precisione a San Giuliano» (e quando parla in dialetto, l’accento americano scompare). Comincia a lavorare a sedici anni, nel 1961, alla Lagomarsino, «che allora era importante come la Olivetti, e aveva la sede in viale Umbria» e si occupa di riparare macchine da calcolo: «erano le più avanzate per l’epoca, contavano 4000 o 5000 parti, e dovevo conoscerle tutte». Nel giro di poco comincia a viaggiare. Era il 1964. «Prima andai a Bologna, poi Genova: facevamo training agli altri dipendenti». Poi su e giù per l’Europa (e anche fuori): nel 1965 va in Finlandia e Danimarca, e l’anno dopo in Algeria, Tunisia, Germania, Austria. Fino ad arrivare, nel ’67, negli States. «Prima a New York. Poi un passaggio in Canada». E, sul finire degli anni sessanta, Los Angeles. «Qui non facevo più training. Riparavo le macchine. E avevo un visto speciale B1, per la gente che fa lavori che lì non sa fare nessuno».

Dopo due anni decide di allargarsi e comprare la società che importa le macchine da Milano, «e funziona, facciamo un sacco di bei soldi». Lui è il manager, insieme a lui ci sono altri due soci, italiani anche loro. Ma, dopo poco, l’incanto si spezza. «C’è voluto qualche anno, ma poi i calcolatori giapponesi sono entrati nel mercato. È stata la fine, hanno polverizzato tutto: i nostri macchinari erano diventati, ormai, obsolete». Un colpo. Ma galleggiarono e si convertirono rivendendo prodotti della Ibm.

E come si arriva, da qui, alle macchine per scrivere? «Fu dieci anni fa. Quando il tecnico che riparava le macchine manuali andò in pensione. Era l’unico che lo sapeva fare. Allora decido di prendere il suo posto, e imparo tutto by training myself». Marzorati se le porta a casa la sera, le smonta e le rimonta più volte. «Se non sei bravo, rischi di riparare il danno ma nel frattempo di combinarne altri due. Il difficile, allora, è ripararle senza fare altri danni». Lui impara (e a giudicare dai suoi risultati impara bene) fino a quando, un giorno, entra nel suo negozio Steve Soboroff, miliardario, uomo d’affari, ex presidente del progetto residenziale (e non solo) Playa Vista.

«È anche un appassionato di macchine per scrivere appartenute a grandi scrittori, e ne colleziona decine». Come ad esempio quelle di «Hemingway, Tennessee Williams, Orson Welles, Bernard Shaw», tutte passate tra le mani di Marzorati, che le ha dovute riparare. «Ma ci sono anche quelle di Marilyn Monroe, Charlton Heston, Gregory Peck. E John Lennon. Quella vale almeno mezzo milione di dollari». Tutte tracce di un tempo in cui era un oggetto comune e diffuso. Certo, «non è semplice stabilire se sono autentiche. Servono indagini, e certificati».

Dalle condizioni in cui vengono portare a Marzorati, si possono capire come venivano trattate dai loro vecchi, illustri, proprietari. «Quella di Mark Twain era in cattivo stato», ma non sembra fosse colpa dello scrittore. «Quella di Ronald Reagan è interessante. Mostra che, a causa dell’Alzheimer che lo aveva colpito in vecchiaia, l’ex presidente usava solo pochissimi tasti, sempre gli stessi», deteriorandoli.

Non è solo il fascino di ripercorrere le vite e i segreti dei grandi scrittori o dei personaggi famosi, studiando i loro strumenti, quello che racconta Marzorati. La macchina per scrivere sta tornando in voga, «molti mi chiedono di riparare quella dei loro genitori, o vecchi modelli che hanno comprato nei mercati. Non per collezione: ma perché le vogliono usare». Si tratta di un’esigenza «diversa» rispetto alle comodità dei computer «che sono very distractive». Scrivere a macchina significa «avere una scrittura più lenta, sorvegliata, perché non si possono fare correzioni o riscritture, a meno di dover ricominciare da capo. E allora occorre, ogni volta, concentrarsi, pensare a lungo e con attenzione, mettere ordine nei pensieri, fare un plot, e poi scriverlo con cura». Un modo (e un mondo) diverso.

«Adesso va di moda, anche tra ragazzi (ma soprattutto ragazze) regalarsi una macchina per scrivere», aggiunge. Per lui, del resto, è stato proprio questo strumento che «ha aiutato le donne a emanciparsi nel ’900». Scrivendo a macchina «hanno trovato i primi impieghi, sono entrate negli uffici, hanno mosso i primi passi verso la conquista del mondo del lavoro. Le ha aiutate di più la macchina per scrivere che il diritto di voto», esagera, ma forse non tanto. E così compie, nel suo studio, il recupero di un oggetto che ha segnato e rivoluzionato tutto un secolo. Per le stravaganze dei collezionisti, certo. Ma anche per ritrovare, da qualche parte, un mondo antico che forse non è ancora perduto. 

Guarda il trailer del documentario The Typewriter (in the 21st century)

(compare anche Marzorati)

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