Quarantacinquemila persone. Nel 2008. Numero che oggi forse si aggira intorno ai 60 000. Sono le persone costrette a sottoporsi a emodialisi in Italia, tre volte la settimana per quattro ore. Perché i reni non funzionano e l’unica alternativa è il trapianto. O appunto far svolgere la funzione che spetterebbe ai reni, a una macchina esterna all’organismo. Sempre in Italia, secondo i dati del 2012, i casi di trapianti sono stati 1500, e “l’anzianità dialitica” cioè il tempo medio di attesa per ricevere un nuovo rene è di due anni e mezzo a livello nazionale. Tempo che in alcune regioni si dilata fino ad arrivare a cinque anni. Una lista d’attesa che inevitabilmente è causa di decesso per alcune di queste persone. In America si stima che la mortalità legata alla waiting list sia intorno al 5-10% e riguardo gli altri dati non sono messi meglio di noi. Circa un milione di persone vivono con patologie renali in stadio avanzato, e di queste circa 100 000 aspettano il trapianto ma solo 18000 ricevono un nuovo rene ogni anno.
Sarebbe molto più semplice creare direttamente dei nuovi reni da trapiantare, piuttosto che aspettare un donatore. E nell’era della carne in provetta e delle stampanti di organi umani in 3D non sembra poi un traguardo così lontano. Ci hanno provato, con buoni risultati i ricercatori del Massachusetts General Hospital e della Harvard Medical School di Boston, che hanno prodotto un nuovo rene in laboratorio, partendo però da uno vecchio. Una sorta di riciclo dell’usato.
«Il rene è un organo troppo complesso perché sia prodotto da zero in laboratorio» spiega a Linkiesta Domenico Prezioso, professore associato di urologia presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli. «Oggi riescono a creare la cute, che viene usata per quelle persone che hanno subito perdite cutanee importanti a causa delle ustioni, ma quando si tratta di un organo altamente specializzato come il rene è più complicato. La vera novità però è nel metodo». Già applicato in passato ad altri organi come cuore, polmoni e fegato, ora sul rene.
Si parte da un rene prelevato da un cadavere, di ratto, maiale, essere umano, e lo si “decellularizza” cioè lo si priva di tutte le cellule appartenenti all’individuo precedente. Quello che rimane è la struttura dell’organo, perfettamente intatta e funzionale. A questo punto attraverso l’arteria vengono iniettate delle cellule staminali totipotenti, come quelle del cordone ombelicale. Le cellule cioè presenti all’inizio dello sviluppo di un organismo, tutte uguali, non ancora differenziate né specializzate. Le cellule di ogni essere umano infatti, in partenza sono tutte uguali, solo dopo a causa dell’influenza dell’ambiente in cui si trovano di specializzano, acquisiscono cioè competenze diverse a seconda del tessuto che andranno a costituire: cuore, polmone, rene e così via.
I ricercatori di Boston hanno dimostrato, con prova istologica e biochimica, che non solo l’architettura interna del rene rimaneva tale e quale anche dopo il wash out – la pulizia dalle vecchie cellule – ma anche che le cellule staminali a contatto con essa diventavano cellule renali, influenzate dal microambiente. Inoltre il “nuovo” rene era in grado di produrre urina sia in vitro che in vivo. «Certo l’urina deve avere certe caratteristiche chimico fisiche perché si possa dire che il rene funzioni – continua Prezioso – ci devono essere determinate sostanze che confermino che il sangue è stato depurato. Un modo per verificarlo, per esempio, è valutare la clearance (volume virtuale di plasma che l’organo è in grado di depurare da una certa sostanza nell’unità di tempo) della creatinina. In questo studio i risultati a tal proposito non sono buoni, perché la clearance della creatinina non è ottimale, ma aumentando la perfusione migliorava. E in fin dei conti questo è solo il punto di partenza, è un risultato sorprendente mai ottenuto prima».
Se davvero lo studio pubblicato su Nature Medicine fosse il primo passo verso la realizzazione di un rene bioingegnerizzato risolverebbe il duplice problema della scarsità di organi disponibili per il trapianto, che non riesce a soddisfare la richiesta, e dell’immunosoppressione. I trapiantanti, infatti, sono costretti per tutta la vita ad assumere farmaci che blocchino il sistema immunitario per evitare il rigetto dell’organo (si tratta comunque di un organo estraneo all’organismo). Questi farmaci sono ormai ben tollerati ma espongono i pazienti all’attacco di virus e batteri, e sempre secondo i dati americani, il 20 % dei trapiantati affronta un episodio di rigetto entro cinque anni dal trapianto, mentre il 40% muore o perde la funzionalità dell’organo trapiantato nei giro di dieci anni.
Il rene prodotto in laboratorio potrebbe risolvere anche questi problemi: «Le cellule staminali sono totipotenti e vergini dal punto di vista immunitario, perché non appartengono a nessun individuo e non hanno memoria. Quindi non scatenano una risposta immunitaria quantomeno immediata o significativa in questi soggetti» chiarisce Prezioso. «Se riuscissimo a ridurre gli immunosoppressori a dosaggi minimi, sarebbe già un grosso traguardo. Oggi queste persone non hanno alternative, devono assumerli per tutta la vita, e come tutti i farmaci sono sostanze estranee all’organismo, che sarebbe meglio evitare a lungo andare. Il problema del rigetto invece sarà testato solo una volta arrivati alla fase clinica, prima non si può dire niente».
Inoltre in tempi di spending review trovare un’alternativa all’emodialisi farebbe felici non solo i pazienti. Queste pratica salvavita infatti, costa tantissimo ed è totalmente a carico del Sistema sanitario nazionale. Tenendo conto di tutte le persone che necessitano di emodialisi, tre volte la settimana, il risultato sono dei costi notevoli. «È uno dei gravi problemi delle regioni, che non stavano rimborsando i centri di dialisi, che a loro volta non possono sospendere la dialisi se no il paziente muore» sottolinea il professore dell’Università Federico II. «Soprattutto in America, dove la assicurazioni sono una grossa lobby, sono certo che proprio il motivo economico darà una grossa spinta a questa ricerca. Passare da una terapia cronica con dialisi, costosa, a qualcosa che può far tornare queste persone in una situazione di costi molto ridotti, non può che incoraggiare gli investimenti».
«I centri di medicina sperimentale in questo campo sono molto diffusi e, non dico in Italia dove siamo subissati di tagli alla ricerca, ma nei paesi un po’ più illuminati, cioè in tutto il resto del mondo occidentale, ci sono fondi nazionali da investire. Perché sanno che la ricerca può avere un beneficio in termini economici che vale l’investimento» conclude Prezioso . «Se come credo il National Institutes of Health darà il giusto peso alla ricerca, sia per l’elevato numero di pazienti coinvolti, sia a causa delle spinta della lobby delle assicurazioni, non ci vorrà molto tempo perché si concretizzi».
Nonostante questo però il percorso non è né semplice né breve, come sempre quando si tratta di testare nuovi farmaci o trattamenti. Dalla fase preclinica sui topi si deve passare a testare il rene su animali più grandi e simili all’uomo e solo dopo si arriverà alla fase clinica. E se i risultati della fase II saranno accettabili, secondo Prezioso, i volontari per testare il rene bioingegnerizzato si troveranno. Piuttosto che aspettare cinque anni per un trapianto.
Twitter: @cristinatogna
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