Se il lungo addio a Mandela è trasmesso in diretta

Le condizioni di Madiba restano gravi

È la fine quello che si aspetta. Sotto al Mediclinic Heart Hospital di Pretoria, dove Nelson Mandela è ricoverato dal 6 giugno, si radunano folle per pregare, con canti e balli. Perché si riprenda, dicono alcuni, stia meglio e continui a vivere. Ma di più, senza contraddizione, per salutarlo e ringraziarlo per quello che ha fatto. Intanto, l’accompagnamento degli ultimi giorni dell’uomo che ha sconfitto l’apartheid in Sudafrica è trasmesso in diretta. Fotografi e giornalisti sono lì anche per il momento in cui morirà. E questo, sotto certi aspetti, solleva alcuni interrogativi.

Di sicuro, i dubbi sono pochi. Dal punto di vista clinico le condizioni, anche se intervallate da miglioramenti, restano critiche: sarebbe tenuto in vita dalle macchine. Il presidente sudafricano Jacob Zuma, che è in continuo contatto con i suoi medici e i familiari, ha cancellato il suo viaggio in Mozambico e ha chiesto ai cittadini di pregare per lui. È stata anche decisa, dagli anziani della famiglia (e secondo le sue volontà) la sua sepoltura – non sarà a Mvezo, villaggio in cui è nato, ma a Qunu, dove ha vissuto la sua infanzia. Ci si prepara: nel cimitero è già pronta una escavatrice per la fossa. Eppure, nella famiglia, come ha detto il figlio Mandla, «si spera nel miracolo».

Intanto vanno avanti le cerimonie improvvisate di saluti: sono state liberate cento colombe di fronte all’ospedale, si lasciano fiori e palloncini, cartelli e manifesti con frasi celebri di Madiba.. E nella folla, gli attivisti dell’Anc (African National Congress), per anni guidato da Mandela – sfruttano l’evento per fare campagna elettorale: “Non esiste un cittadino libero senza liberatore. Vota Anc 2014”, sono le scritte sulle magliette degli attivisti. Compaiono, scaricati da diversi camion, manifesti con la faccia di Zuma, lasciati poi appesi vicino all’ospedale. «Siamo qui per pregare per Madiba e per fare campagna per le elezioni dell’anno prossimo», spiega al Mail & Guardian un militante. «Non è una manifestazione elettorale». Il contrasto è negato, i contorni sfumano, ma l’occasione stessa, anche se amara, è un evento. Quello che fanno è, in un certo modo, legittimo: Mandela, oltre a essere un punto di riferimento mondiale, era stato ed è un attivista del partito.

Ma il punto è che aspettare la fine di Mandela non è solo una veglia a un uomo che muore: è l’attesa di un evento che, com’è ovvio, sarà raccontato da televisioni e giornali. E la stampa è una presenza fissa, notte e giorno, insistente e senza tregua. Le segnalazioni degli aggiornamenti sono continue. C’è una diretta no stop di fronte all’ospedale. Ogni spostamento e visita dei parenti suscita illazioni su ciò che viene detto, deciso, sullo stato di salute di Mandela. Girano racconti sui litigi (poi smentiti) per la sepoltura. Insomma, si segue con ansia ogni istante che passa, e visto che, di ora in ora, le condizioni si fanno più critiche, si rimane in attesa di dare una sola notizia, quella della morte. Allargando il raggio, anche su internet (e soprattutto su twitter) è stato detto più volte (non da giornali) che Mandela se ne fosse andato, cercando forse di suscitare scompiglio. Nonostante la grevità, il segno è chiaro: si aspetta solo quello, e non è bello.

«Non ho mai visto nulla di simile nella storia del mondo», ha dichiarato infastidita la figlia Makaziwe in un’intervista con la Sabc. «Il fatto che mio padre sia un’icona globale, una delle 25 persone più influenti del ventunesimo secolo, non significa che le persone possano non rispettare la sua dignità e il suo diritto alla riservatezza». E poi: «Non vorrei dirlo, ma lo dico: c’è un elemento di razzismo nel fatto che molti media stranieri si permettano di oltrepassare i limiti della decenza». Sono appostati lì, come «avvoltoi, in attesa della carcassa di un leone». E perché «Non hanno fatto niente del genere con Ronald Reagan, o Margaret Thatcher»?. Forse fanno «così ora perché siamo in un paese africano?»

Forse sì. C’è una parte di sciacallaggio, dubbio gusto, nel guardare – con tanto di dirette – le ultime ore di Nelson Mandela, aspettando nient’altro che la comunicazione della sua morte? Se non ci fosse la scusa del mestiere, senza dubbio, anche se i limiti ci sono sempre. È vero anche che, con Mandela, non morirà solo una persona, ma anche «un’icona globale». È uno sfondo di immagini e di simboli. E qui si colloca, come del resto vale per tutte le visite di capi di stato, anche quella di oggi del presidente Usa Barack Obama. Lui non ha mancato di ricordare, durante il suo passaggio in Senegal, come Mandela fosse per lui «un eroe», aggiungendo che il suo «primo atto di attivismo politico è stato entrare nel movimento anti-apartheid», ispirato proprio da Tata Madiba. Il New York Times stesso annota che «un incontro tra i due sarebbe stato ricco di simboli e di simmetrie per i popoli dei due continenti. Due uomini di diverse generazioni che hanno fatto la storia in quanto, per primi, sono diventati presidenti neri di paesi con profonde divisioni razziali».

Insomma, in scena c’è l’accompagnamento della morte di un’icona. Passaggi di testimoni tra figure simboliche; saluti, canti e balli di un popolo che lo ringrazia per i suoi meriti storici; giornali e televisioni sintonizzati a ogni ora nella corsa alla notizia: sarà un momento storico, e devono esserci. Insieme a tutto questo c’è l’agonia di un uomo, curata dai medici e seguita dai familiari. Come ha voluto precisare la figlia Makaziwe, solo ai parenti – e non alla folla – resterà l’accesso al cimitero di famiglia. Non sarà un luogo di pellegrinaggio perché, in fondo, si tratta di una cosa privata. Proprio lì, nei giorni passati, si sono trovati gli anziani del clan. Forse, secondo il rito, per pregare gli avi di lasciare Madiba qualche giorno ancora sulla terra. O invece, con una formula antica, per concedere il loro permesso finale. Perché la sua anima si liberi e gli antenati, tornati in visita, la prendano e la conducano con loro. 

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