Brulica il mercato italiano nascente delle sigarette elettroniche. Brulica e teme. L’orizzonte è un cielo di luci contrastate: una clientela di fumatori sterminata e facile da conquistare lo illumina, una tassa lo oscura. E di questo promettente formicolio rischia di rimanere una serie di buchi neri nelle strade commerciali delle città: i più di duemila negozi che chiuderebbero, secondo le stime dell’Anafe (Associazione Nazionale fumo elettronico), se entrasse in vigore la tassa del 58.5% su device, ricambi e aromi decisa dal Consiglio dei ministri del 26 giugno.
«Basterebbero 90 giorni per far chiudere due terzi dei negozi di sigarette elettroniche» – non si stanca di ripetere il presidente Massimiliano Mancini – spuntati con facilità in questi due anni. E addio mercato nascente con cifre da record, quello che nel 2012, tra negozi e produzione, ha creato 4000 posti di lavoro. Età media degli addetti 30 anni, 4000 punti vendita stimati entro la fine del 2013, e fatturato pari a 350 milioni di euro nel 2012, stime previste di 500 milioni di euro per il 2013 (dati Anafe).
Aprire un negozio di e-cig
Aprire un negozio di sigarette elettroniche ora è davvero facile. Pochi euro per l’investimento iniziale e la possibilità di recuperarlo nel giro di pochi mesi. Basta azzeccare la posizione giusta del punto vendita, come racconta Massimo Uboldi, 38 anni, titolare insieme al socio Mattia Valoggia di tre negozi e creatore della rete di franchising VapeSmoke – 60 negozi in tutta Italia.
Ha iniziato da pioniere il 10 dicembre 2011 con un piccolo punto vendita a Borgomanero, Novara, dopo aver provato insieme all’amico Mattia una sigaretta elettronica ed essersi convinto che tutti i fumatori prima o poi ne avrebbero voluta una. «L’11 dicembre avevo già venduto tutto», racconta.
Come ha fatto? «Sono partito da un localino sfitto del mio amico a Borgomanero. Sono andato dal commercialista, abbiamo aperto la Scia, la Segnalazione certificata di inizio attività che consente all’imprenditore di iniziare una qualsiasi attività produttiva il giorno stesso della presentazione delle carte in Comune». Mentre il commercialista preparava i documenti, Massimo e Mattia verniciavano il negozio, svolgevano le pratiche per l’affissione dell’insegna, contattavano l’Agenzia delle entrate per fiscalizzare il registratore di cassa, montavano i mobili e prendevano contatti con la Cina.
La Cina
Con la Cina, sì. Perché ancora oggi, la quasi totalità delle sigarette elettroniche vendute in Italia e in Europa è prodotta in Cina, nell’area industriale di Shenzhen. E i commercianti di e-cig che al franchising preferiscono l’apertura di un negozio del tutto nuovo, prendono contatti direttamente coi cinesi. Ma è tutto molto semplice, grazie a Internet e ad Alibaba, la piattaforma di e-commerce cinese dove è facile trovare i contatti dei numerosissimi produttori di e-cig. «Una quarantina, a quanto ne so io».
Massimo ha fatto così: «Ho selezionato dieci produttori guardando i loro siti internet. Di quei dieci ne ho scelti cinque. Mi sono fatto mandare i loro marchi per distinguere tra quelli «Ce Comunità europea», e quelli «Ce China Export». Su cinque, tre avevano il marchio europeo. Ne ho scelti due, in base alle caratteristiche dei prodotti. Mi piaceva ad esempio il fatto che le sigarette di questi due avessero una batteria che segnava la percentuale di carica rimanente». Massimo e Mattia fanno un primo ordine. «1000 dollari per 500 sigarette. All’inizio ti devi fidare. Ma quando abbiamo ricevuto il materiale era tutto perfetto». Contattano la FlavourArt, azienda, italiana questa, produttrice di aromi, di proprietà di Massimiliano Mancini, oggi presidente dell’associazione di categoria Anafe.
L’investimento iniziale, tra sigarette, aromi, affitto e arredamento del negozio, compresi computer, stampante e registratore di cassa, è di 8000 euro, 4000 a testa. Due mesi dopo hanno già raggiunto il break even e aprono il secondo negozio a Varese. Questa volta l’investimento è di 25mila euro, 15 mila di prodotti. «Un negozio aperto in una città di 20mila abitanti circa di da un fatturato mensile tra i 18mila e i 22 mila euro», spiega.
Un modello di etichettatura a norma fornito dall’Anafe, Associazione nazionale fumo elettronico
Intanto il rapporto con le due aziende cinesi si consolida. «All’inizio pagavamo il 100% al momento dell’ordine. Ora invece diamo il 30% all’ordine e il 70% dopo la consegna». Ogni quattro mesi Massimo e Mattia vanno a Shenzhen a stringere la mano dei loro produttori. E intanto vedono l’evoluzione delle aziende. «A Maggio ci hanno mostrato il nuovo stabilimento. Tremila metri quadrati dove andranno gli attuali 200 dipendenti». Racconta di file lunghe di operai seduti uno di fronte all’altro a montare le diverse componenti di sigarette elettroniche e di call center, dentro le stesse aziende, («dieci telefonisti ogni 200 operai, circa») per seguire a distanza i clienti internazionali come Massimo e Mattia.
Il franchising
Poi l’idea di creare negozi Vape Smoke in franchising, la soluzione più facile per chi oggi voglia aprire un negozio di e-cig. «Quando viene da noi qualcuno che vuole aprire un punto vendita VapeSmoke gli chiediamo innanzitutto di mostrarci il locale che ha scelto. Deve essere in una posizione visibile, con accesso pedonale e auto, parcheggio e in una città con almeno 20mila abitanti. Al negoziante chiediamo di occuparsi delle pratiche per aprire il negozio e per montare l’insegna. Fare la dichiarazione all’Agenzia delle entrate per fiscalizzare il registratore di cassa. E poi offriamo due soluzioni: il negozio chiavi in mano, in cui siamo noi ad arredare tutto, a mettere computer, stampante, vetrine, fino a consegnare il negozio pronto per l’apertura. Oppure forniamo i nostri prodotti ai negozianti che arredano in autonomia il punto vendita, rispettando prezzo, logo e colori della VapeSmoke. Acquistano ad esempio da noi una sigaretta elettronica a 35 euro e poi la rivendono a 70, con un guadagno del 100%. Il guadagno per noi sulla singola sigaretta venduta è di 7, 8 euro a pezzo.
Rischio bolla?
La situazione descritta da Massimo è quella in cui i commercianti hanno vissuto finora. Perché se fino ad aprile 2013 il fatturato mensile di un negozio era attorno alle 20mila euro in una cittadina di 20mila abitanti, «con la campagna mediatica ostile della Fit, la Federazione dei tabaccai c’è stato un primo calo delle vendite, che fa fatturare solo 8mila euro circa al mese», spiega. «E ora arriva la nuova tassa, col rischio di chiusura del 70% dei nostri negozi». I venditori di sigarette elettroniche sono del tutto certi che non si possa parlare di saturazione del mercato e di entusiasmo che scema dopo il boom iniziale. Troppo presto, e troppi clienti ormai ex fumatori di sigarette tradizionali soddisfatti. «Vengono a ringraziarci perché dopo un mese hanno detto addio alla vecchia sigaretta, mangiano di più e sentono finalmente il sapore del cibo», dice Massimo. «Resto convinto che tutti i fumatori, dopo aver provato le e-cig ne resterebbero soddisfatti. Ma i tabaccai hanno tutto l’interesse a farci questa campagna contro e gli italiani, appena li bombardi di messaggi terroristici, ti credono».
Senza contare che la tassa è sul prodotto venduto, «scontrinato», come dice Massimo. Che va subito al dunque. «Basta che non faccio lo scontrino e non pago la tassa sui prodotti venduti. È un modo per incoraggiare l’evasione fiscale di negozianti che altrimenti si troveranno costretti a chiudere».
Filiera spenta sul nascere
A chiedere al ministero dell’Economia le ragioni di una tassa così pesante e decisa di punto in bianco, non si ottiene una motivazione diversa da quella della necessità di fare cassa. «È la stessa tassa che c’è sulle sigarette tradizionali», dicono dallo staff del ministro Saccomanni. «E c’era bisogno di recuperare dei fondi». E Massimiliano Mancini, pur consapevole che il mercato delle e-cig abbia bisogno di una regolamentazione, tasse comprese, è convinto che la misura sia stata presa «senza avere la minima idea del mercato della sigaretta elettronica, dei suoi numeri e dei vantaggi in termini di Irpef, Irap e posti di lavoro creati portati alla Stato. Per non contare i minori costi per la sanità, visto che le e-cig sono meno nocive delle sigarette tradizionali e portano molti a smettere di fumare».
Proprio sulla questione della nocività delle sigarette elettroniche si sta interrogando il ministero della Salute che ha recentemente incontrato i rispettivi dicasteri europei lo scorso 26 giugno a Lussemburgo. La sigaretta elettronica è paragonabile a un farmaco? Si sono chiesti i ministri riuniti, per stabilire se limitarne la vendita alle farmacie. Dallo staff del ministro tengono a precisare che nulla è stato stabilito in merito e che passeranno ancora molti mesi prima di avere una direttiva europea in materia. «La posizione dell’Italia – uguale a quella della Francia – contrariamente a quanto uscito su molti giornali, non considera le e-cig alla pari dei farmaci usati per smettere di fumare. Il 26 giugno ci siamo confrontati su questo e l’Italia ha esposto le evidenze scientifiche del Consiglio superiore di sanità. La vendita nelle farmacie di prodotti contenenti una certa dose di nicotina era la posizione prevalente degli altri Paesi partecipanti, non dell’Italia. Ma di questo si continuerà a discutere. Nessuna decisione è stata presa». Per ora però, il ministro Lorenzin ha limitato l’uso delle sigarette elettroniche ai maggiorenni, e proibito l’utilizzo negli spazi chiusi delle scuole. «Il Csm ha sconsigliato l’uso alle donne incinta e ai minorenni», si giustificano.
E mentre il mercato italiano per ora brulica e si struttura – a Torino è nato il primo produttore italiano di qualità e le catene in franchising si moltiplicano – i venditori i preparano a dare battaglia. L’annuncio, in anteprima, lo dà Massimo: «Il nove luglio tutti a Palazzo Chigi a protestare contro la tassa, miraccomando».