Springsteen, “ecco perché non dovreste chiamarmi Boss”

Oggi il superconcerto a San Siro, da domani in libreria

Uno pensa che su Bruce Springsteen sia già stato scritto tutto, poi compare una nuova biografia a smentire questa convinzione. Bruce, che esce in Italia martedì 4 giugno (il giorno dopo San Siro, un buon rimedio per il blues post concerto), racconta il “Brooce” che riempie gli stadi e che ha venduto milioni di album, ma soprattutto l’uomo che ha dato tutto se stesso per arrivare fin lì.

L’autore è il giornalista statunitense, Peter Ames Carlin, che, prima di dedicarsi per tre anni a questo libro, ha lavorato per le riviste People e The Oregonian e aveva già pubblicato due importanti titoli, Catch a Wave: The Rise, Fall & Redemption of the Beach Boys’ Brian Wilson e Paul McCartney. A Life.

Con Bruce, Carlin parte dalla storia delle famiglie Springsteen-Zerilli, prima ancora che il cantante nascesse, mette insieme i pezzi di un’infanzia con pochi o troppi punti di riferimento e non può fare a meno di raccontare anche le esperienze più delicate che lo hanno segnato, come l’emarginazione a scuola, l’educazione cattolica, il rapporto ostile con il padre e la riconciliazione molti anni più tardi, la convivenza con la depressione, le complesse relazioni sentimentali, la sovrapposizione temporale tra la prima moglie e quella che sarebbe diventata la seconda.

È sempre fatto con garbo, ma solo spingendosi oltre i confini della sfera privata si può provare a capire la straordinaria figura di Bruce, che non può spiegarsi soltanto con un’ambizione gigantesca combinata ad altrettanto talento. Bruce Springsteen come lo conosciamo ha preso forma giorno dopo giorno da quel bisogno primario di aggrapparsi alla chitarra per trovare un riscatto, la sua “redenzione”. Questo emerge dalla prima all’ultima pagina.

Attraverso un anedotto che risale ai primi anni Settanta, Peter Ames Carlin precisa una volta per tutte perché non dovremmo chiamarlo “The boss”. Ai fan più informati diciamo che il libro segue l’evoluzione artistica di Bruce come songwriter, compositore e performer anche attraverso i passaggi più noti, ormai epici, della sua carriera, ma tutto viene affrontato da una prospettiva molto interna. Non succedeva infatti dal 1987 che Springsteen contribuisse a una sua biografia.

La nostra conversazione con l’autore comincia proprio da qui. Si era messo al lavoro da un anno e mezzo quando ha ricevuto una telefonata da Jon Landau, il manager di Bruce, che gli apriva le porte del regno. Praticamente un po’ come vincere alla lotteria­­­­…

Peter, com’è stato “quel” giorno?
Ovviamente è stato un gran giorno per me e un vero momento di svolta in quello che era un progetto già molto gratificante. Da allora non è cambiato il mio modo di lavorare – ho proseguito con le mie ricerche e interviste – ma grazie all’imprimatur di Jon e Bruce ho potuto accedere a un’enorme varietà di fonti interne e ben informate. È stato fantastico.

Hai scritto che l’unica cosa che ti ha chiesto Springsteen è “un racconto onesto della sua vita”. Tra l’altro, questa non è una biografia autorizzata, cioè Bruce non ha avuto l’ultima parola su ciò che è stato pubblicato. Come sei riuscito a conquistare la sua piena fiducia considerando l’ossessione per il controllo, che lui stesso ammette, su tutto ciò che lo riguarda?
Persino all’inizio, quando il management di Bruce aveva escluso molto chiaramente un suo coinvolgimento nel progetto, avevo la sensazione che il lavoro che stavo portando avanti ­– ricerche accurate e interviste con chiunque avesse avuto un rapporto con Bruce e fosse disponibile a raccontarlo – avrebbe potuto attirare la sua attenzione e magari aprire la strada a una qualche forma di collaborazione, o almeno di accettazione. Incredibilmente è quello che è successo.
Quando Landau si è messo in contatto con me all’inizio del 2011 praticamente mi ha detto: “Bruce sa quanto stai lavorando per cercare di ricostruire la sua vita e capire la sua persona, quindi alla fine ha deciso di rendere omaggio al tuo impegno”.
Da quella telefonata ci sono voluti altri nove mesi prima che Bruce accettasse di essere intervistato, ma quando ha deciso di farlo ci si è messo con tutto il suo impegno. È stato molto disponibile e accogliente. E ha voluto chiarire che non aveva interesse a esercitare alcun tipo di controllo su quello che avrei scritto, al punto di dirmi: “Se ti viene in mente qualsiasi cosa che hai scartato perché pensi che avrebbe potuto ferirmi o offendermi, mettila. Scrivila e basta”. Io, devo dire, non mi ero trattenuto più di tanto, ma è stato comunque confortante sentire quelle parole.

L’impressione è che con te Bruce si sia aperto molto, quasi come in una seduta di psicoterapia. C’è un livello di intimità in quello che sceglie di rivelare (senza la mediazione che può fornire una canzone) che non è scontato. Che ricordo hai dei vostri incontri?
Ci siamo incontrati in diversi posti nel corso di sette, otto mesi. Nella sua pizzeria preferita a Freehold, New Jersey; nel bar di un hotel a Red Bank, NJ; in una delle case di sua proprietà, nel suo studio di registrazione, nel camerino prima di un concerto e poi ci siamo parlati al telefono.
In effetti alcune parti del nostro dialogo assomigliavano un po’ a una seduta di psicoterapia. A volte ho sospettato che mi stesse dicendo cose che alcuni tra i suoi migliori amici potevano non sapere. E mi sembrava strano, visto che io e lui ci conoscevamo personalmente da così poco. Su altre cose invece è stato più riservato, ma è stato chiaro sin dall’inizio che il nostro era un rapporto professionale, non personale. Comunque l’ho sempre trovato un uomo cordiale, anche divertente, mai scontroso o difficile.

Riporti anche aneddoti curiosi della sua vita, come quella volta in cui Janis Joplin andò a suonare ad Asbury Park, NJ, subito dopo Woodstock. Oppure quando Bruce nel ’78 giurò a una ragazza, che sarebbe diventata la sua fidanzata, che non aveva mai avuto un’avventura di una sola notte. Salvo poi precisare il concetto 35 anni dopo, pubblicamente, attraverso questo libro.
È vero. In una delle nostre ultime conversazioni stavamo parlando di quelle sue rivendicazioni di completa monogamia e a un certo punto ha spiegato in maniera molto divertente che quelle parole erano da intendersi “nel contesto delle rock star”. Vale a dire, non era stato sincero al cento per cento perché vivere on the road significava anche dover dipendere a volte “dalla gentilezza degli sconosciuti”. Ma se di tanto in tanto in passato si è concesso qualche occasione, è stato un monaco rispetto ad altri rocker che ogni sera si intrattenevano con groupies o fans, anche a multipli di due o tre. Penso che non gli si possa dare torto.

Mi ha colpito una citazione di Bruce, forse minore, che però sembra cogliere molto bene l’essenza di sé, un uomo inquieto alla continua ricerca di qualcosa. “Sono un artigiano. Dammi una pala e io continuo a scavare finché non trovo quello che sto cercando”. In quel contesto la frase è riferita al suo lavoro, ma può valere anche per la sua vita privata: trent’anni di analisi, la fatica di creare legami stabili, il tentativo costante di sublimare paure, sofferenza, conflitti interiori. Sei d’accordo?
Proprio in questo sta la magia di Bruce Springsteen: lui ha questo lato oscuro dell’anima che a volte lo ha piegato o bloccato. Ma ha anche la forza, la resistenza e la determinazione di un combattente. L’ambizione, la tenacia, l’incapacità di accettare un “no” come risposta. E quindi lavora, lavora, lavora finché non trova un modo per prevalere oppure per imparare a convivere con le cose che non riesce a cambiare. Sa, per esempio, che la sua psiche è un work in progress. Il lato oscuro non se ne andrà mai via del tutto, ma finché è consapevole della sua presenza e la riconosce, sa come tenerlo a bada.

E poi ci sono i suoi silenzi. Uno dei suoi collaboratori storici, Chuck Plotkin, parla di “power of not talking” riferendosi proprio al peso di ciò che Springsteen sceglie di non dire e alla necessità di interpretarlo. Ma racconti anche di altri silenzi significativi, nei suoi legami più privati, come il riavvicinamento al padre anziano o un momento di intimità con uno dei suoi figli. Che idea ti sei fatto di questo Bruce “non verbale”?
Siamo di fronte a due cose diverse, penso. Bruce con in braccio suo figlio Evan mentre sfoglia un libro illustrato senza leggerlo né commentarlo è l’immagine di un vero momento di intimità, una forma di comunicazione non verbale che sembra essere più eloquente di ogni parola. L’altro, invece, è il Bruce che non scopre le sue carte, nemmeno con i suoi collaboratori più stretti. E questo è un modo per affermare il suo bisogno di spazio, specialmente quando sta lavorando o pensando a qualcosa. Sotto molti aspetti rimane un uomo molto riservato e penso che abbia capito piuttosto presto nella vita che tenere per sé i propri pensieri è il modo più facile per tenere la gente a una certa distanza, per non sentirsi le persone addosso.

A proposito dei suoi più stretti collaboratori, la E Street Band è sempre stata presente nella testa di Bruce anche quando ha deciso di scioglierla. Sono gli amici di una vita, ma lui è anche il loro capo, esigente e a volte autoritario. Nel libro sottolinei più volte l’ambivalenza di quei rapporti e hai trovato più di uno di loro pronto a levarsi qualche sassolino, magari a distanza di venti o trent’anni. Te l’aspettavi?
Diciamo che non è stata una sorpresa, soprattutto perché questi sono ragazzi cresciuti insieme; che hanno lavorato insieme per gran parte delle loro vite adulte; che hanno dato tutto per aiutare Bruce a inseguire la sua visione, uniformandosi molto spesso ai suoi ordini e umori. Le persone tendono a essere complicate in un modo o nell’altro e ogni tipo di relazione a lungo termine si scontra prima o poi con una litania di frustrazioni, delusioni e risentimenti. Quindi sicuramente anche loro covano i loro rancori, si lamentano, si sfogano. Ma sotto la superficie c’è un legame straodinario tra gli uni e gli altri, una sorta di amore fraterno fortissimo, condiviso da tutti. Alla fine è questo l’aspetto determinante del loro rapporto.

In questa biografia hai raccolto l’ultima intervista al sassofonista Clarence Clemons prima della sua morte, due anni fa. Possiamo considerarla una sorta di testamento. Clarence si diceva molto deluso e arrabbiato per il fatto che la E Street Band fosse ancora esclusa dalla Rock’n’Roll Hall of Fame. Hai idea del perché venga lasciata fuori? E soprattutto, pensi che questa “petizione”, ormai pubblica, possa trovare ascolto?
La risposta a queste domande è la stessa: non lo so. Ho raccolto supposizioni, niente più che ipotesi sui motivi dell’esclusione, da persone che comunque non possono saperlo per certo.
Quello che invece so è che sono in molti a volere la E Street Band nella Hall of Fame: tutti i suoi membri più una grande e appassionata comunità di fan, sia negli Stati Uniti sia all’estero. Se si considera quanto la band sia stata funzionale al successo e all’eredità culturale e musicale di Bruce, è difficile immaginare che possa essere tenuta fuori per sempre, o ancora a lungo. Nella storia del rock non riesco a trovare un gruppo di supporto migliore di questo, un altro che si distingua così tanto.

Patti Scialfa, la moglie di Springsteen, è ovviamente una presenza costante nel libro ma è l’unico attuale componente della E Street Band con cui non hai parlato, almeno non ufficialmente. Più in generale la seconda parte della vita privata e pubblica di Bruce è più condensata. È stata una scelta editoriale o altro?
Ho deciso di non soffermarmi sui figli di Bruce e Patti perché volevo rispettare la loro privacy e mi sarei sentito a disagio a spingerli sotto i riflettori puntati sul papà. Sarebbe stata un’altra cosa se loro avessero voluto parlarmi spontaneamente, ma mi sembrava giusto che fosse una loro decisione.
Con Patti mi sarebbe piaciuto parlare e infatti avevamo fissato un paio di interviste, poi però le cose sono andate diversamente, la prima volta per la morte improvvisa di un amico, poi per l’inizio del tour del 2012 che ha complicato ulteriormente la situazione. Quindi non ci siamo mai seduti a un tavolo con un registratore, ma so che Bruce lo avrebbe voluto.

Ripercorrendoli, i principali momenti di svolta nella sua carriera – scioglimento della band e reunion, blocchi creativi e grandi ispirazioni, successi planetari e vita ritirata, set acustici nei teatri e Super Bowl davanti a cento milioni di spettatori – possono sembrare contradditori, ma non accidentali. È come se Springsteen avesse sempre seguito una sola direzione, esplorando magari strade diverse. È così? O ogni tanto si è anche perso?
Bruce è molto strategico nei suoi progetti, ha le idee molto chiare sul concetto, anche implicito, che vuole esprimere e sulle persone a cui vuole parlare. Il suo più grande passo, di gran lunga, risale al periodo di Born in the USA, quando divenne una superstar globale. In quella fase fu certamente contento del successo, per come lo aveva raggiunto, ma penso anche che in alcuni momenti quel livello di notorietà fosse diventato un problema. Penso per esempio all’invasione tumultuosa di paparazzi, giornalisti e fan nel giorno del suo matrimonio con Julianne Phillips nel 1985. A quel punto ha deciso di cambiare direzione, orientandosi verso canzoni più intime e un’immagine meno grandiosa e addomesticata. E così non si è perso.

Nella biografia segui anche l’evoluzione del suo impegno politico e sociale. Il libro, pubblicato negli Stati Uniti a fine ottobre 2012, non arriva a coprire l’uragano Sandy e le ultime elezioni presidenziali, due eventi che hanno profondamente coinvolto Bruce. Non pensi che adesso più che mai Springsteen sia “una voce del momento”, cioè quello che aspirava a essere, come ti ha detto, quando i suoi modelli erano Bob Dylan, Elvis Presley, Woody Guthrie, Curtis Mayfield?
Assolutamente sì. L’influenza di Bruce come figura culturale e portavoce politico non ha rivali nel mondo dello show business americano. Certo, anche le parole di Bono hanno un gran peso, ma il cantante degli U2 è molto più addentro alle dinamiche politiche, alle trattative con i leader mondiali. Bruce si tiene alla larga dagli intricati meandri del potere politico, rappresenta piuttosto l’incarnazione di un grande ideale americano – quel populismo comunitario che viene fatto risalire al presidente Franklin D. Roosevelt e alla filosofia di governo del New Deal – ed è l’erede di quello spirito schietto che animava Woody Guthrie, John Steinbeck, Mark Twain e altri. In questo modo riesce davvero a raggiungere molte persone ed è ascoltato con estrema attenzione.

Da molto tempo gira voce che Springsteen stia lavorando a un’autobiografia. E immagino che anche tu abbia un po’ di materiale inedito su di lui. Dobbiamo aspettarci qualche altra novità in libreria da parte tua o di Bruce?
Bruce ha scritto una parte, probabilmente una buona parte, di un’autobiografia. Un po’ di tempo fa ha detto che non aveva intenzione di pubblicarla, ma sinceramente dubito che abbandoni il progetto senza mandarlo in stampa un giorno o l’altro. Quest’uomo scrive benissimo anche in prosa – pensiamo al suo discorso al South By Southwest Festival di Austin nel 2012 – e mi metterei in coda per comprare una copia di un suo libro.

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Riguardo ai miei archivi e a potenziali nuovi progetti su Bruce, non posso escludere che mi rimetta a scrivere qualcosa. Adesso mi sto concentrando su altro, non ho programmi definitivi, quindi stiamo a vedere cosa riserverà il futuro.

Alla fine Bruce ti ha fatto sapere se ha trovato il tuo libro “un racconto onesto della sua vita”?
Sì, ed è stata una conversazione molto piacevole. Ho ricevuto anche un mucchio di email da suoi amici, familiari e collaboratori storici che hanno avuto parole gentili sul libro e sul ritratto di Bruce che ne è venuto fuori. E tutto questo per me vuol dire tanto.

Peter Ames Carlin, Bruce, Mondadori, 520 pagine, 22 euro, in uscita il 4 giugno

Con più di 120 milioni di album venduti, da quasi quarant’anni Bruce Springsteen è una vera icona del rock, la star che meglio rappresenta il cuore e l’anima profonda dell’America.
Una voce influente nel mondo della cultura e della politica statunitense al punto che il presidente Obama ha ammesso: «Io sono il presidente, ma lui è il Boss».
Nato da anni di meticolose ricerche e contatti diretti con l’artista e la sua cerchia ristretta, famiglia e membri della band, Bruce è senza dubbio il racconto più intimo e completo della vita di Springsteen: un’esistenza eccezionale segnata da grandi dolori privati, una potente ambizione e una divorante passione per la musica. Carlin tratteggia come nessuno ha fatto finora la storia personale e la lunga, incredibile carriera di Springsteen, dall’umile infanzia a Freehold, nel New Jersey, lungo la tenace ascesa verso l’olimpo della musica e la complicata vita sentimentale. Fino al tentativo di sconfiggere quei demoni che avevano già quasi distrutto suo padre. Attesissima dai fan e balzata subito ai primi posti in classifica in America, Bruce è l’imperdibile biografia di un artista che ha conquistato e influenzato intere generazioni, una leggenda assoluta della scena musicale di tutti i tempi.

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