Uno scenario degno di 1984 di George Orwell. Ma a fin di bene. Nessun “Grande Fratello” che ci guarda e controlla cosa facciamo, ma “solo” dei sensori capaci di monitorare in continuo la nostra salute e lo stile di vita, e allertare noi, o il medico se qualcosa non va. Si tratta di dispositivi medici intelligenti e indossabili, come quello creato di recente dai ricercatori inglesi dell’Università di Bristol, Sphere, che può essere inserito nei vestiti, gioielli o addirittura nel nostro corpo. Sono in grado di rilevare i nostri movimenti, cosa mangiamo, il nostro peso, l’umore, la pressione, la frequenza cardiaca ecc. e di inviare questi dati al nostro smarthphone che a sua volta li invia a un server, in grado di allertare il medico o ri-inviare all’utente istruzioni sul come comportarsi.
Lo scopo è monitorare la salute di tutte quelle persone che sono continuamente sotto osservazione perché soffrono di patologie croniche, come il diabete per esempio, o di obesità, alla base di molti problemi di salute; o ancora hanno avuto episodi acuti di infarto, ictus, depressione ecc. o semplicemente sono anziane e quindi potenzialmente più a rischio. Per esempio – spiegano gli scienziati inglesi coinvolti nel progetto Sphere – il dispositivo potrebbe rilevare se l’utente sta prendendo il farmaco corretto, o l’effetto di un farmaco sull’organismo, e riconoscere i sintomi di un ictus monitorando i movimenti del corpo inusuali o le espressioni facciali.
«Si tratta però sempre di prevenzione, non di diagnosi» spiega a Linkiesta Giovanni Pioggia, che all’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa si occupa proprio di sviluppare queste nuove tecnologie intelligenti. «Il trend ormai va verso questi nuovi dispositivi: sensori che vengono messi in contatto con la pelle attraverso elettrodi simile a quelli che si usano per l’elettrocardiogramma (ecg) classico; o come quelli dei cardio-frequenzimetri che si usano in palestra, che si mettono sul torace o nel polso e sono fatti di una gomma particolare, biocompatibile. Aderiscono alla pelle grazie a uno stato di sudore e così riescono a rilevare e trasdurre alcuni segnali fisiologici, come quello bioelettrico che arriva dal cuore. I nostri cellulari poi, che sono veri e propri pc, fanno il resto: acquisiscono i dati e li inviano a un altro server o semplicemente li restituiscono a noi».
A seconda del sensore utilizzato possono essere rilevate informazioni diverse, per cui se vogliamo capire quanto una persona si muove basterà inserire un sensore di movimento, o uno di tipo chimico se vogliamo controllare la glicemia e così via. Si possono usare anche più sensori, collegati fra loro e con lo smartphone. «Il telefonino, o ha un software con degli allarmi, che ti allertano se qualcosa non va, come la tachicardia o la glicemia fuori dai valori; oppure c’è un applicazione apposita che permette di collegare il cellulare a un server in remoto» continua il bio ingegnere del Cnr. «Lo smartphone invia i dati rilevati all’ospedale, dove a riceverli non è un medico, ma un computer. Una sorta di database che contiene la storia clinica di ogni paziene monitorato, che userà per contestualizzare i dati ricevuti».
Non si tratta quindi di valori assoluti, ma relativi. I dati che vengono rilevati da questi sensori da soli non hanno alcun senso e trovano una spiegazione solo se inseriti nel contesto medico di quel paziente. Un certo valore può essere sballato per una persona ma perfettamente in norma per un altro. Per questo il medico stabilisce delle soglie personali che vengono registrate nel database. «È un “sistema di supporto alla decisione” che si connette da remoto in automatico quando riceve i valori dallo smartphone e se fa una valutazione medica in base ai dati che ha a disposizione» spiega Pioggia. «Non si tratta di una diagnosi, che può essere fatto solo da un medico capace di interpretare i dati, ma in funzione di cosa sta succedendo il sistema di supporto può decidere di allertare il medico o fornire informazioni ai pazienti su cosa fare. Può dirti che sei agitato e devi rilassarti o consigliarti di prendere un farmaco che usi di solito ecc.».
L’80 % degli italiani sopra i 65 ha una patologia cronica e circa ogni 10 anni la vita media del paziente aumenta di due anni. L’età media della popolazione sta diventando sempre più alta e avremo sempre più bisogno di risorse economiche e umane per la gestione di queste persone, sane, ma che hanno bisogno di attenzioni particolari. Il futuro quindi, sembra vada verso un controllo diagnostico personale e personalizzato in cui il paziente interagisce con il medico. «Parliamo però sempre di prevenzione su persone sane, che devono cambiare o monitorare il loro stile di vita per prevenire una malattia o un altro evento acuto. Ma se ho un paziente con uno scompenso cardiaco ovviamente gli dovrò mettere un holter. È molto utile per le patologie che devono essere monitorate da casa, come ictus, autismo o altro, o nella riabilitazione, per esempio cardiologica: indosso questo sistema e vedo quanto sono fedele al programma di riabilitazione. Il sistema mi guida e io divento più bravo a seguire il programma. Da questo punto di vista questi strumenti sono molto affidabili, ma nella diagnosi clinica no. Non puoi fidarti di un ecg fatto da uno smartphone, devi usare un dispositivo medico validato».
Il limite ora non è più la tecnologia – alcuni di questi strumenti per monitorare parametri semplici sono infatti già disponibili – ma l’attendibilità e lo scopo. Come per i farmaci sono necessari studi a lungo termine, trial clinici che ne dimostrino efficacia e sicurezza. Il team di ricerca di Giovani Pioggia da tre anni è coinvolto in un programma europeo che coinvolge 33 partners, The Chiron project, e sta sperimentando queste nuove tecnologie su 100 persone a Roma e 100 a Southampton «non tanto per testare il dispositivo, già in commercio e che chiunque può comprare, ma il sistema di previsione, che deve evitare che quella persona si ammali e diventi un paziente. Dietro c’è un’analisi automatica da validare, quella che guida queste persone ogni giorno e gli dice cosa fare: da indossare il dispositivo ad avvisarlo che il sensore è sbagliato ecc. È una specie di grande fratello che ogni giorno li controlla e aiuta».
«Lo scopo è evitare il ricovero e ridurre i costi sanitari – conclude Pioggia – quando qualcosa non va il paziente, piuttosto che andare in ospedale interagisce prima con il software che gli dice cosa fare, e solo se la situazione è critica vi si reca. Nel momento in cui quella persona diventa un malato il sistema smette di esistere per poi tornare in scena dopo, quando torna a casa, per evitare che si verifichi un altro evento acuto e ritorni in ospedale».
Forse ne guadagneremo in salute ma «non potremmo più andare dal medico curante e mentire dicendo che non abbiamo bevuto vino, se c’era stato impedito, o dicendo che abbiamo fatto movimento quando siamo rimasti sul divano, perché Il sistema controlla e registra quello che facciamo».
Il video del progetto Chiron, mostra una giornata tipo di chi utilizza i dispositivi
Twitter: @cristinatogna
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