«Borini, non è un peccato che molti giovani come te debbano andarsene all’estero per affermarsi?»« Beh, in Italia potevano pensarci prima. Ora in Inghilterra sto benissimo». Firmato Fabio Borini, ai microfoni della RAI, dopo la semifinale degli Europei Under 21 decisa da un suo gol. Borini è stato “rapito” qualche anno fa dal Chelsea, che lo ha prelevato dalle giovanili del Bologna. Qualche anno dopo è tornato in Italia per un anno, ha fatto bene con la Roma, ma non gli è bastato per la riconferma. Così ha trovato posto nel Liverpool, una delle più gloriose squadre d’Europa. Poco meno di un anno fa la Nazionale maggiore arrivava in finale di Euro 2012 contro la Spagna. Borini è stato convocato da Cesare Prandelli, ma non ha giocato nemmeno un minuto. Contro l’Olanda, in semifinale, ha segnato il gol che ha portato la Under 21 in finale degli Europei di categoria. La sua storia è quella di molti altri suoi compagni, che vanno via dall’Italia o restano, ma spesso ai margini del grande calcio.
Sembra quasi offensivo definire un calciatore “precario”, con tutti i soldi che girano nel calcio. Soprattutto a livello di ingaggi. Eppure, la nazionale italiana Under 21 reduce dall’Europeo di categoria in Israele sembra essere in qualche modio specchio del Paese. Uno specchio che riflette una realtà nella quale, se sei giovane e talentuoso devi farne di strada prima di arrivare tra i grandi oppure devi andare all’estero, come Borini o Marco Verratti. Il centrocampista abruzzese se fosse rimasto in Italia avrebbe molto probabilmente fatto da riserva a Pirlo nella Juventus. E allora, in confronto ai pari età spagnoli che ci hanno sconfitto in finale, la nostra Under 21 è composta da precari itineranti del calcio.
Per fare un esempio, basta prendere le linee difensive di Italia e Spagna per capire la differenza tra come vengono gestiti i giovani dalle grandi squadredi serie A e Liga.La Rojita agli europei ha schierato: in porta David de Gea (portiere titolare del Manchester United campione in carica d’Inghliterra), Montoya e Bartra (spesso titolari del Barcellona fresco vincitore della Liga), Inigo Martinez (che con la Real Sociedad ha appena ottenuto la qualificazione in Champions League) e Moreno (che gioca nel Siviglia). Quella degli “azzurrini”, invece: in porta Francesco Bardi, in difesa Bianchetti, Caldirola, Donati e Biraghi. Tutti dell’Inter, tutti in prestito. Bianchetti ha giocato appena 7 partite all’Hellas Verona e ora è titolare azzurro, comportandosi bene. Donati è appena retrocesso dalla serie B con il Grosseto e nella semifinale contro l’Olanda è stato trai migliori in campo. Tornerà all’Inter, andrà in ritiro e poi magari finirà in qualche scambio di mercato che porterà in nerazzurro qualcuno di più famoso, magari straniero. Lo stesso destino che rischiano i suoi compagni di difesa. Certo, ieri la Spagna l’ha fatta ballare questa difesa. Ma la Spagna è la Spagna. Questione di maggiore esperienza, oltre che di qualità. Lo ha ribadito il ct azzurro Devis Mangia dopo la finale: «Ai miei ragazzi non posso dire niente. E’ mancata l’esperienza e questo è stato determinante».
Se proseguiamo nel confronto tra le due nazionali, i dati sono impietosi. In tutto, i ragazzi allenati da Devis Mangia hanno collezionato nelle loro squadre 18mila minuti in campo. Gli spagnoli di Lopetegui praticamente il triplo: quasi 35mila minuti. Il che, tradotto, in numero di presenze, significa che i nostri giovani hanno totalizzato 480 partite nella massima serie A (compresa la Premier League e la Ligue 1 francese), contro le 1080 in Liga dei pari età iberici. Tra le file azzurre, il più “anziano” è Alberto Paloschi, scuola Milan e maglia Chievo, con 81 presenze in serie A. Nella Rojita, il recordman è Muniain, esterno dell’Athletic Bilbao con 112 presenze in Liga. Per non parlare dell’esperienza europea. Isco ha giocato una Champions da protagonista con il Malaga, Rodrigo ha centrato una finale di Europa League con il Benfica, Illaramendi e Martinez l’Europa la disputeranno il prossimo anno con la Real Sociedad, De Gea di Champions ne ha già giocate un paio. Nel nostro centrocampo, lo juventino Luca Marrone ha giocato 13 volte. In due stagioni.
Gli unici azzurrini a giocare nella massima serie (fra Italia ed estero) sono 4, oltre a Borini: Lorenzo Insigne (Napoli), Marco Verratti (Psg), Alessandro Florenzi (Roma) e Ciro Immobile (Genoa). E proprio Insigne potrà il prossimo anno giocare la Champions League con il suo Napoli: per il giovane attaccante di Frattamaggiore ci sarà spazio nel torneo continentale, visto e considerato anche che lo allenerà uno spagnolo come Rafa Benitez. Perché è ormai stra-noto che gli iberici tengono più in considerazione tutto ciò che viene dai vivai. Il caso più famoso è quello del Barcellona, la squadra che negli ultimi anni ha incantato per gioco e vittorie: Puyol, Piquè, Xavi, Iniesta, Pedro, Messi: sono solo alcuni dei grandi campioni tutti provenienti dalla cantera del Barça. Il picco di questa tradizione fu toccato il 25 novembre 2012, quando i Blaugrana scesero in campo contro il Levante con 11 giocatori su 11 cresciuti nel vivaio, la “mitica” Masia: Valdes; Montoya, Piqué, Puyol, Jordi Alba; Xavi, Busquets, Iniesta; Pedro, Messi, Fabregas. Certo un caso-limite, ma che fa parte di un dato: in Spagna il 25,9% dei giocatori delle giovanili viene utilizzato dalle prime squadre, contro il 7,8% di quanto accade in Italia.
E sarà una frase abusata, ma l’Italia non è un Paese per giovani. Lo dice un rapporto stilato dallo svizzero Cies Football Osservatory, che ha scandagliato il comportamento delle squadre di 31 campionati europei affiliati alla Uefa. Scoprendo che proprio gli spagnoli sono quelli che hanno più fiducia nei vivai, seguiti dalla francese Ligue 1 (21,1%), dalla Premier League (17,5%), dalla Bundesliga tedesca (14%). Un dato che si associa al fatto che gli inglesi e gli italiani sono quelli che pescano di più tra i giocatori stranieri per le loro prime squadre (50%). Ma se nel caso dell’Inghilterra è una questione di accresciuto appeal della Premier, diventato un vero e proprio prodotto nel quale investono magnati statunitensi e arabi, in Italia è più una questione di mentalità. Mentre nella Masia tutte la categorie delle giovanili giocano con lo stesso modulo e quando un ragazzo arriva in prima squadra sa già cosa deve fare, in Italia i giovani vengono usati spesso come pedine di scambio nel calciomercato, dopo essersi fatti le ossa in serie B o in Lega Pro. Oppure, bisogna avere la fortuna di capitare con allenatori che apprezzano i talenti in erba, come successo con Florenzi, fortemente trattenuto alla Roma da Zeman. Lo stesso tecnico che al Pescara ha gettato nella mischia Insigne, Verratti e Immobile vincendo un campionato di B.
Così, mentre i grandi club sfruttano i giovani per i loro acquisti, i club medio-piccoli spesso non riescono a trattenere le proprie promesse. A volte per problemi finanziari del club di provenienza, come quando nel 2004 il Parma reduce dal crack Parmalat dovette cedere molte perle del suo vivaio all’estero tra cui Arturo Lupoli all’Arsenal e Giuseppe Rossi al Manchester United. Spesso però è una questione di quella che potremmo definire “depredabilità”. Emblematico il caso di Federico Macheda, che nel 2007 passò dalle giovanili della Lazio a quelle dell’onnipresente Manchester United: i Red Devils, come già fatto con Rossi, approfittarono del fatto che in Italia non si può far firmare contratti professionistici a calciatori sotto i 16 anni, per offrire al ragazzo un contratto da 65mila euro. Un caso che spesso si è ripetuto con club meno facoltosi della Lazio, come l’Atalanta, che spesso si è vista sfilare diverse promesse non potendo parificare le offerte di squadre con maggiore disponibilità economica. La Uefa in questo caso non protegge i club minori. Ieri l’Italia è stata punita 3 volte da Thiago Alcantara, spagnolo ma nato in provincia di Brindisi. Se avesse chiesto e ottenuto la cittadinanza italiana, una legislazione meno orientata allo “scippo” da parte delle squadre straniere lo avrebbe trattenuto nel nostro Paese. Ma avrebbe comunque giocato di più in prima squadra?