Domenica scorsa questo giornale ha pubblicato uno scritto molto bello di Stefano Cingolani, tra i migliori interpreti e biografi del nostro sistema finanziario. Dopo i guai rimediati, specie negli ultimi vent’anni, dalla combinazione di manager incapaci e politici disattenti si chiede se e in quale modo si possa risorgere. L’obiettivo è ridare al paese prima una sua dignità e poi un motore di benessere costituito da un gruppo di grandi imprese capaci di coniugare l’efficienza delle macchine con l’aspirazione a far rivivere un grande popolo in un grande paese. La conclusione di Cingolani è positivamente netta: «basta all'”anarchia odierna, caciarona, costosa, tendenzialmente pericolosa».
Condivido la maggior parte dei passaggi e dell’analisi che ci fa figurare in un declino da spavento. Le nostre grandi multinazionali dell’industria occupano oggi in Italia un numero di dipendenti equivalente a quello dei piccoli stati scandinavi, un terzo in meno dei britannici, meno della metà dei francesi e appena un quinto dei tedeschi. Ciò significa che la competitività viene ricercata quasi sempre spostando la produzione in paesi a basso costo, soprattutto del lavoro. Ma una grande industria moderna, che aspiri a far parte del gruppo di testa, deve puntare sul “valore” della sua produzione, organizzando efficienti global value chains e concentrando gli sforzi nell’innovazione delle merci proposte e dei processi usati. Ciò con buona pace di chi si lamenta del cuneo fiscale per trarne ragioni di abbassamento del costo del lavoro: un abbassamento che non è né necessario né tanto meno auspicabile visto lo stato della domanda interna e i costi, infimi, dei paesi in via di sviluppo.
Ma veniamo alla grande impresa e alla finanza che ne rappresenta uno degli elementi cruciali. Credo intanto che, parlando di finanza, dobbiamo dimenticare la parola “mercato”: un leit motiv imposto negli anni 1990 da chi quel “mercato” controllava (Wall Street e City), reclamato in grande pompa persino dal bordo di un panfilo reale in quel di Civitavecchia da un coro rossiniano di politici e funzionari pubblici innamorati del nuovo modello. Un “mercato” servito solo per ingrassare le grandi banche estere con le loro istituzioni (analisti interessati, rating compiacenti, revisori disattenti) che di quello stesso “mercato” abbiamo saputo essere le massime manipolatrici (ma le “prove” c’erano già).
Mi è capitato di leggere la biografia di John Pierpont Morgan scritta da Carl Hovey nel 1912 nella quale la grande finanza era già vista benemerita solo se mossa da spirito di cooperazione; gli anglosassoni predicano la liberalizzazione, ma sono rimasti a quei tempi e la cooperazione viene perseguita anche dalle grandi concentrazioni tedesche e francesi. La concorrenza funzionerebbe a nostro vantaggio solo se i competitori fossero numerosi e se i “caduti” potessero essere prontamente sostituiti da altri attori “domestici”. Ciò avviene nel nostro Quarto capitalismo, ma ritengo sia sciocco attendersi che succeda nella grande finanza dove la caduta di una grande impresa produce un vuoto (caso Olivetti) o una sparizione a favore di gruppi esteri (caso Montedison). Distruzioni e basta, quindi. La situazione di oggi si può vedere dal grafico qui sotto: i privati restano minuscoli e per giunta pericolosamente privi di patrimonio.
Come evitare l’anarchia? I paesi che dispongono di una classe politica forte e competente usano la politica industriale e la moral suasion (e forse qualcosa in più) per fare in modo che chi monopolizza molte delle risorse finanziarie create dalla comunità si muova nell’interesse generale, paghi quando sbaglia e non si dedichi ad avventure e speculazioni con beneficio di pochi. In Italia gli anni virtuosi furono quelli del miracolo economico (mezzo secolo fa). Dopo vi fu una paurosa progressione di decadimento morale e di negligenza civile e politica. Le grandi imprese si sono progressivamente avvizzite, specchio fedele della prevalente incapacità dei manager che le hanno guidate.
Possiamo reagire a questa decadenza? Personalmente nutro poche speranze, vedendo invece in positivo l’emergenza del Quarto capitalismo, ovvero di un modo di produrre le merci a noi utili facendo leva sull’entusiasmo di imprenditori che perseguono i loro progetti di vita, evitando la “grande” finanza, i “grandi” consulenti e i “grandi” manager. Sono loro le imprese che dobbiamo rafforzare, in modo che i loro progetti diano frutti in patria. Ma per i “grandi” occorre comunque tentare un recupero. Servono però almeno due condizioni, che equivalgono ad altrettante criticità: una classe politica competente e autorevole e un ente finanziario che sia capace di fungere da crocevia. La prima ci sarà solo per volere dei cittadini; il secondo è assai più problematico. Si identificò storicamente con Mediobanca che si guadagnò il ruolo dimostrando sul campo le sue capacità. Le cosiddette riforme della finanza, a partire dal 1990, ma soprattutto un atteggiamento ostile delle nostre istituzioni le hanno tolto quel ruolo.
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