«È stato il generatore, il catalizzatore di dinamiche arrivate fino alla comunicazione politica dei giorni nostri». Eccola la motivazione che ha spinto Martino Cervo, caporedattore del quotidiano Libero ad approfondire la figura di Willi Münzenberg, «il capo della propaganda occidentale del Comintern» nei primi decenni del ’900, figura semisconosciuta ai più. Ed è da questa motivazione che ha preso il via l’incontro organizzato da Linkiesta con Andrea Romano, deputato di Scelta Civica e professore di Storia Contemporanea, e Giorgio Gori, manager televisivo, ex direttore di Canale 5 e spin doctor di Matteo Renzi nell’ultima campagna elettorale.
Al centro questa domanda: è possibile tracciare un percorso nella comunicazione politica da Lenin a Renzi? Cosa sopravvive della propaganda di Münzenberg ai giorni nostri?
Nato in Turingia, attuale Germania, nel 1889, Münzenberg conosce Lenin a Zurigo negli anni in cui, giovane, si reca in Svizzera in cerca di lavoro. Ed è qui, in quello che fu «terreno di grande fermento» di idee politiche, che da un «confuso socialismo e antifascismo», questo «figlio di militari decaduti», convoglia nella causa leninista.
«Il caso di Münzenberg insegna come la propaganda politica non è mai solo artificio retorico o semplice strumentazione tecnica. Si basa piuttosto su bisogni reali», introduce Romano, che traccia un excursus attraverso Blair e Renzi. Se negli anni Trenta Münzenberg intercetta «il bisogno di aderire al Comunismo di intellettuali europei», in cerca «di un pacchetto di ideologie per superare le democrazie occidentali rivelatesi inefficaci nel rispondere a problemi anche di ordine sociale», ecco che anche Tony Blair, da leader dei Labour britannici, basa la sua efficace propaganda sulla capacità di intercettare i bisogni reali della gente.
«Blair basa la sua fortuna sul bisogno del suo Paese di sentir parlare di cose nuove, diverse dal passato. E introduce la politica del piccolo crimine, la Broken windows policy, dove le finestre rotte sono i piccoli crimini subiti dai quartieri popolari», spiega Romano, lasciando sullo sfondo le grandi battaglie contro le disuguaglianze sociali proprie della sinistra britannica storica. Una scelta simile a quella di Matteo Renzi, secondo il deputato di Scelta Civica, che basa la sua popolarità «non sulla simpatia personale ma sul dire cose diverse dai predecessori, e sulla capacità di intercettare un’audience più ampia di quella della sinistra italiana». «Renzi ha compreso in positivo la lezione di Berlusconi, e la sua capacità di tematizzare argomenti politici negletti o nascosti».
Giorgio Gori mette in luce innanzitutto una distanza fortissima tra il capo della propaganda comunista occidentale e Renzi. «Quando Münzenberg prende le distanze dal comunismo ortodosso negli anni Trenta è perché non approva l’identificazione tra partito e Stato, e perché non accetta il culto della personalità di Stalin. Insomma, Münzenberg è contro la personalizzazione della politica, Renzi direi di no». Ma, precisa Gori, il sindaco di Firenze è pur sempre figlio della Seconda Repubblica, che è tutta caratterizzata da una forte enfasi sulla persona, «sull’immagine dei politici che prevale sui contenuti». Frutto, propone Gori, della crisi delle ideologie, della sfiducia nei partiti di cui Tangentopoli è uno dei principali esempi, e dell’irruzione della tv, capace com’è di dare rilievo alle singole figure personali». E se Berlusconi è il primo in Italia che sdogana gli aspetti della «neopolitica», lui che è «l’apoteosi della personalizzazione della politica», si tratta di un cambiamento che coinvolge tutti i leader di quest’epoca, «da Obama a Sarkozy».
Piuttosto, Giorgio Gori vede una continuità tra Münzenberg e i giorni nostri in un altro senso. Il capo della propaganda comunista ricorda Berlusconi «nella costruzione dell’opinione pubblica: entrambi raccontano la stessa storia, l’eterno conflitto del male contro il bene. Per Berlusconi il male sono di volta in volta i comunisti, la magistratura, a volte gli immigrati extracomunitari. Per Münzenberg il male è tutto ciò che non è comunista». Con la differenza che Münzenberg è un portavoce, mentre Berlusconi «è protagonista della storia che racconta». Diverso invece l’atteggiamento di Renzi, che come Obama non si descrive né guru né profeta, ma parte di un percorso condiviso dalla comunità che si raccoglie attorno al suo leader, un popolo in cammino verso una speranza comune.
Münzenberg, secondo il manager televisivo, si ritrova in Renzi soprattutto nella «ossessione di andare oltre le linee, di fare breccia in un campo avverso». Entrambi mirano a conquistare «adepti in un campo opposto, senza fermarsi a chi è già congiunto». Un fenomeno, ritiene Gori, «del tutto rivoluzionario se riferito ai tempi in cui si manifesta, che siano quelli di Münzenberg nella Mitteleuropa di inizio Novecento o quelli di Matteo Renzi nell’Italia del 2013.