Rovesciate all’indomani dalla guerra talune esigenze che erano state fatte valere dal fascismo per soddisfare quelle ragioni di prestigio che ai nazionalismi sempre si accompagnano, anche l’emigrazione tornava ad essere oggetto di studi e di discussioni. E non mancarono naturalmente, fra i soliti fabbricatori di luoghi comuni, fra i retori che ritengono di possedere la soluzione per tutti i problemi italiani, coloro cui tale soluzione sembrava consistere appunto nella più intensa emigrazione possibile: ora che si erano potute liquidare le prevenzioni del fascismo, la lezione di un passato non tanto lontano, quando l’emigrazione aveva rappresentato la sola «valvola di sfogo» della pressione demografica italiana, tornava a farsi viva ed eloquente; e la Carta Atlantica avrebbe consentito di riprendere forse la navigazione verso le vecchie rive, sulle quali, nel ventennio fra le due guerre per ragioni che oramai si potevano considerare superate, o incompatibili con i principi che avevano trionfato, erano stati eretti numerosi divieti di sbarco. Così come non mancarono coloro che, già avversari della politica emigratoria in tempi fascisti, la venivano patrocinando ora, in tempi di democrazia, illudendosi di alleggerire così la pressione di un proletariato tanto più minaccioso quanto più numeroso.
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In pari tempo, la riscoperta del Mezzogiorno d’Italia e della questione meridionale, che fu uno dei dati principali della letteratura italiana nel dopoguerra, restituiva all’emigrazione la sua prospettiva storica, per la funzione cui aveva assolto, non meno che per quella realtà di aree italiane sovrapopolate e sottosviluppate di cui proprio essa, l’emigrazione, era stata la manifestazione più vistosa; e le restituiva anche, naturalmente, la sua prospettiva politica, per la funzione cui avrebbe ancora potuto assolvere, non meno che per la realtà di aree tuttora sovrapopolate e sottosviluppate che un’altra volta venivano proponendo al nostro paese problemi di esodo e di nuovi insediamenti.
Quando, però, nei primi anni del dopoguerra, si discuteva di emigrazione, e della necessità di imprimerle il massimo impulso, era sempre, o per lo meno prevalentemente, alle nazioni transoceaniche che si faceva riferimento: e soprattutto alle vecchie terre promesse del Nord e del Sud dell’America, ai paesi che avevano rappresentato le destinazioni di gran lunga più ambite delle antiche correnti migratorie partite dall’Italia meridionale, le quali avevano dato luogo a una forte, diffusa, tenace tradizione, sopravvissuta al fascismo attraverso i racconti dei vecchi che di li erano tornati numerosi a comperare il pezzo di terra intorno ai «paesi» natali, o attraverso le lettere di parenti e «compari», che ora, dopo la guerra, tornavano a farsi vivi.
Ma presto ci si avvide che i divieti di sbarco permanevano; che c’erano molti profughi della guerra che dovevano essere sistemati in precedenza, e che il loro numero era tale da colmare per parecchi anni quelle «quote» per le quali soltanto si tolleravano eccezioni ai divieti di sbarco; che l’emigrazione transoceanica era possibile quindi solo per atto di richiamo; che per gli italiani, tra l’altro, non pesavano favorevolmente sulla bilancia condizioni etniche e religiose, preferenze politiche dei paesi d’immigrazione e requisiti di mestiere dei candidati all’emigrazione. Ci si avvide di tutto ciò e qualcuno cominciò a domandarsi intanto quale rapporto vi fosse fra emigrazione e industrializzazione, se un maggiore impulso della prima non recasse danno alle prospettive della seconda, se coloro che presenta vano l’emigrazione come soluzione per tutti i problemi italiani non volessero eludere con questo gli impegni più severi di una politica di sviluppo delle regioni meridionali del paese.
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Nel presente le possibilità di una maggiore emigrazione erano limitate, nel futuro avrebbero potuto anche farsi più tangibili e rilevanti. Ma, in questo caso, quale atteggiamento si sarebbe dovuto assumere, quale politica si sarebbe dovuta impostare e condurre, una volta che il rapporto fra emigrazione e industrializzazione sembrava configurarsi come un rapporto fra due tipi, diversi e op posti, di soluzione della questione meridionale? E infatti, quando in Italia, oggi come ieri, si parla d’emigrazione, si pensa soprattutto a quei giovani del Mezzogiorno che, numerosi e poverissimi, traversano il mare o valicano un passo alpino per cercare fortuna, o, assai più spesso, sol tanto lavoro. E quando si parla di industrializzazione, si pensa soprattutto alle regioni del Sud, alla necessità che considerevoli capitali immigrino in quelle regioni dalle quali tanti uomini sono costretti ad emigrare. Proprio perciò l’emigrazione e l’industrializzazione vengo no spesso considerate come soluzioni alternative della questione meridionale: sostenuta la prima da coloro che sono pessimisti sulle prospettive della seconda, che a sua volta viene perorata dagli ottimisti.
Il fatto è che in primo luogo non si tratta di essere ottimisti o pessimisti sulla industrializzazione; e altrettanto vano ci sembrano l’ottimismo e il pessimismo sulla mobilità internazionale della manodopera. Un certo grado di industrializzazione è sempre attuabile e una certa quota di manodopera può sempre essere incamminata sulle vie dell’emigrazione. Sarà compito, e merito, dei governi far si che ‒ nelle condizioni di volta in volta datesi attui il massimo grado possibile di industrializzazione e si consegua, se necessario, la più alta quota possibile di emigrazione. E comunque industrializzazione ed emigrazione non devono essere intese come soluzioni alternative che si escludono, ma come soluzioni complementari che si integrano, leve necessariamente inter dipendenti di una coordinata politica meridionalista, e non solo meridionalista, strumenti d’intervento da adoperare congiuntamente; perché l’una e l’altra spianano le strade che convergono verso i più immediati obiettivi della politica di sviluppo dell’occupazione e del reddito in tutto il paese.
LEGGI ANCHE: Nord-Sud, l’Italia è divisa, i dati lo dimostranoNon basta soltanto l’industrializzazione e non basta soltanto l’emigrazione: l’una può trarre giovamento dall’altra, e viceversa. E perciò si devono creare città vicine là dove non ci sono città nel senso moderno della parola, ma soltanto capitali decadute (industrializzazione); e si devono al tempo stesso collegare le nostre più sovrafollate campagne con le città lontane (emigrazione); e non soltanto con quelle transoceaniche, mete della più antica emigrazione meridionale, ma anche e soprattutto con quelle transalpine. Senza questo collegamento attuabile appunto mediante i canali dell’emigrazione internazionale, con priorità per quelli dell’emigrazione intereuropea ‒ tutto il peso dell’esodo rurale verrebbe a gravare soltanto, e non anche, sulle città cisalpine. E proprio in questo senso abbiamo parlato, nel capitolo precedente, di inoltramento verso le città transalpine di una parte degli immigrati afollatisi nelle città cisalpine.
Ora, quali siano le prospettive dell’industrializzazione meridionale è problema dibattuto ogni giorno dai partiti e dalla stampa. E queste prospettive (quando non ci si abbandoni agli stati d’animo che prima nutrono le illusioni e poi sfociano nelle delusioni, ma ci si attenga sempre a realistiche valutazioni) sono tutt’altro che ristrette; specialmente se ci si deciderà a perseguire un piano preciso, nazionale; a non contraddirlo con provvedimenti maggiori o minori adottati in altri settori del la politica economica; a impegnare l’iniziativa pubblica dove quella privata non è in grado di intervenire. Della emigrazione invece si parla molto meno, o se ne parla in modo arbitrario. Nei suoi confronti agiscono, anzi, rémore sentimentali, perché essa viene considerata come una specie di colpa del paese, anche in base a immagini retoriche e convenzionali (l’Italia: «madre» amareggiata; gli emigranti: «figli» diseredati). E come ci sono rémore sentimentali, ci sono anche rémore dottrinarie, fondate sul timore di un eccessivo depauperamento delle forze potenzialmente più attive e intraprendenti del paese. Così le stesse autorità preposte alle sorti della nostra emigrazione si muovono circospette, discutono in sordina, mancano del sostegno e del controllo della pubblica opinione, esitano a impostare una politica di più ampio respiro.
Secondo una dottrina, sostenuta anche da autorevoli studiosi, si dice infatti che l’emigrazione è un affare passivo; perché, per portare l’emigrante all’età della partenza, per trasformarlo, cioè, da «unità di consumo» in «unità di lavoro», occorre un capitale; e questo piccolo capitale sarebbe perduto per il paese d’emigrazione quando fosse un altro paese a impiegare produttivamente V «unità di lavoro». Ma, dicendo ciò, si dimentica che in Italia, il più importante fra i paesi di emigrazione in Europa, questa «unità di lavoro» resterebbe probabilmente disoccupata, con relativo sussidio, o sottoccupata, con relativo danno della produttività; resterebbe cioè virtualmente una «unità di consumo»2. Quando invece la potenziale «unità di lavoro», ma virtuale «unità di consumo», emigra verso altri paesi, spesso si risparmia un sussidio, sempre si guadagnano le rimesse (187 milioni di dollari nel 1957: 33 milioni in più rispetto al 1956, 62 milioni in più rispetto al 1955) e progredisce la produttività; e poi, se la corrente è continua, vengono i «richiami» dei familiari, fra i quali prevalgono le «unità di consumo».
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*Francesco Compagna (1921-1982), I terroni in città, Hacca editore, 364 pagine, 15 euro
La casa editrice Hacca ha appena ristampato il libro I terroni in città, originariamente pubblicato da Laterza nel 1959
Francesco Compagna Meridionalista e geografo italiano (Napoli 1921 – Capri 1982); professore di Geografia all’Università di Lecce (dal 1969), poi di Geografia economica (dal 1970) e di Geografia politica ed economica (dal 1974) all’Università di Napoli. Deputato dal 1968 per il Pri, è stato ministro dei Lavori Pubblici e della Marina Mercantile, nel corso della settima e dell’ottava legislatura, e sottosegretario alla presidenza del Consiglio del gabinetto Spadolini (dal 1981). Ha fondato e diretto la rivista Nord e Sud. Si è occupato prevalentemente di problemi urbani del Mezzogiorno e della politica regionale europea. Tra i suoi scritti: I terroni in città (1959); L’Europa delle regioni (1963); La politica della città (1967); Mezzogiorno in salita (1980).