Ha preso il via la centesima edizione del Tour de France. Chi la vincerà? E quando si scoprirà che il vincitore era dopato? La domanda è antipatica ma lecita, visti i precedenti. Gli ultimi due vincitori, Cadel Evans e Bradley Wiggins, passano per essere puliti, ma prima di loro ci sono almeno quindici anni che andrebbero buttati in blocco nella spazzatura. I sette Tour vinti da Lance Armstrong sono stati cancellati con un colpo di spugna, ma anche i bambini sanno che chi gli è arrivato dietro non era meno dopato di lui.
Fa sorridere pensare ai nomi di chi sarebbe vincitore al posto suo: Zülle, Ullrich (tre volte), Beloki, Kloden e Basso. Tutti implicati in storie di doping, alcuni di questi rei confessi. Sui gradini più bassi del podio compaiono i nomi di Escartin, Moreau, Rumsas, Botero, Vinokurov, anch’essi coinvolti a vario titolo in indagini sul doping. Il lituano Rumsas si fece addirittura quattro mesi di prigione (tre li fece sua moglie per accuse simili) per aver importato medicinali illeciti durante il Tour del 2002. Ci sono state edizioni in cui erano probabimente dopati tutti i primi dieci in classifica.
Stessa storia se si guarda l’albo d’oro del Giro d’Italia. Da metà anni Novanta ad oggi non si salva nessuno: Berzin, Gotti, Pantani, Simoni, Basso, Di Luca, Scarponi e Contador sono tutti finiti nelle maglie dell’antidoping. Forti i dubbi su Tonkov, Savoldelli, Menchov. Forse il solo Damiano Cunego (vincitore nel 2004) è rimasto al di sopra di ogni sospetto, ma anche il suo nome è finito (assieme a quelli, tra gli altri, di Ballan e Santambrogio) nell’inchiesta che coinvolse, nel 2010, il team Lampre. Si spera che non saltino fuori brutte sorprese sugli ultimi due vincitori, Hesjedal e Nibali.
C’è ormai su tutto il ciclismo una presunzione di colpevolezza che a ben vedere è giustificata dai fatti. Qualcuno obietta: il vento è cambiato, i controlli sono più severi, c’è il passaporto biologico, i corridori hanno una diversa consapevolezza. Ma sono anni che si dice così, e nulla indica che qualcosa sia cambiato davvero. Forse gli appassionati che si ammassano ogni anno lungo le strade delle classiche e dei grandi giri si illudono che i casi di doping siano le eccezioni di un sistema che funziona, piuttosto che la punta dell’iceberg di un sistema del tutto irredimibile. O forse lo hanno capito benissimo. E lo hanno accettato. Sanno che tutti sono dopati, e quindi sanno che chi vince è sempre il migliore. Ma anche questa è un’illusione, perché in un mondo in cui sono tutti dopati un sistema antidoping che colpisce solo alcuni rischia, paradossalmente, di costituire un’ingiustizia. C’è tifoso di ciclismo che associ Pantani alla disonestà sportiva e che, anzi, non lo ritenga vittima di un’ingiustizia storica?
Certo è che la credibilità del ciclismo è ai minimi termini e rischia di annegare in un mare di omertosa ipocrisia. Stupisce che in vent’anni non uno tra dirigenti e corridori professionisti abbia mai mostrato il coraggio necessario per ammettere pubblicamente quello che tutti sanno. Solo a cose fatte, spesso dopo anni di indignate smentite, arrivano le ammissioni dei vari Rijis, Ullrich, Armstrong, che si riparano dietro la più ovvia delle difese: ”lo facevano tutti”. Il punto è che hanno ragione. Come uscirne? Di certo non con il fallimentare sistema antidoping attuale.
Qualche anno fa ha suscitato un certo dibattito un articolo di Michael Shermer, forte ciclista dilettante ed esperto di teoria dei giochi. Secondo Shermer, dato il contesto attuale, per i corridori doparsi è la scelta più razionale e non c’è alcun incentivo a cooperare per rompere il binomio generalizzato di doping e omertà. I suggerimenti di Shermer per cambiare la matrice del gioco e rendere conveniente l’abbandono del doping sono i seguenti:
1. Immunità a tutti per il doping assunto in passato (in base al presupposto che tutti si dopavano).
2. Aumento del numero degli atleti sottoposti a test, soprattutto prima delle gare.
3. Aumentare le sanzioni: squalifica a vita in caso di conferma di test positivo e obbligo di restituzione del denaro guadagnato.
4. Squalifica dell’intera squadra se anche un solo membro viene trovato positivo.
Una proposta sicuramente interessante, ma di non facile né di immediata esecuzione, che non risolve (se non con improbabili incentivi monetari agli scienziati) il problema del ritardo dei test rispetto alle nuove generazioni di sostanze.
La situazione ha spinto qualcuno a proporre la legalizzazione del doping. L’anno scorso lo ha suggerito il New York Times, tre anni fa lo disse esplicitamente Ettore Torri, capo della procura antidoping del Coni, subito crocifisso da un coro di critiche. A dire il vero, le ragioni per legalizzare il doping non sono soltanto di realpolitik (l’inefficacia dei controlli sia come forma di giustizia sia come deterrente) ma anche più profonde. I media in genere affrontano il tema con toni emotivi e moralisti, ma la verità è che non esiste un criterio oggettivo e incontrovertibile per distinguere il doping da cosa non lo è.
La definizione di doping non è unanime. Quella della WADA è tanto semplice quanto tautologica: è doping l’assunzione di sostanze proibite. In generale, si intende per doping un abuso di farmaci atto a migliorare artificialmente le prestazioni sportive. Ma il concetto di abuso è a sua volta non oggettivo, e il miglioramento artificiale lo è ancora meno. Bere un integratore, prendere un’aspirina e assumere EPO sono tutti modi di migliorare artificialmente la prestazione e non c’è nulla, se non una convenzione, che stabilisca un confine chiaro tra naturale e artificiale.
Più rigorosa la definizione per cui è doping l’assunzione di sostanze che porti i parametri fisiologici dell’atleta al di fuori degli intervalli di normalità (principio in base al quale funziona il passaporto biologico, che presume l’uso di EPO nel caso di alterazioni del livello di ematocrito superiori a una certa soglia). Ma che dire delle alterazioni fisiologiche che non migliorano le prestazioni? Debole l’obiezione secondo cui il doping è dannoso per la salute: primo, non ci sono evidenze scientifiche assolute in tal senso; secondo, se questo è il criterio si tratterebbe di proibire anche pratiche nocive (per esempio fumare un pacchetto di sigarette al giorno) che però danneggiano anziché migliorare le prestazioni; terzo, ognuno dovrebbe essere libero di gestire la propria salute come meglio crede. Infine, il proibizionismo rende l’assunzione di sostanze potenzialmente nocive ancor più pericoloso di quanto non sarebbe in un regime permissivo.
Dal punto di vista etico, poi, cosa c’è di male nel migliorare le proprie prestazioni? Gli esperti concordano: nessun doping trasforma un ronzino in un purosangue, né può sostituire allenamenti sistematici, intensi e faticosi. Secondo i sostenitori della legalizzazione, al netto di tutti gli argomenti moralistici (retorica del sacrificio, esempio per i giovani) l’uso di sostanze cosiddette dopanti non è antisportivo in sé, ma solo perché implica il mancato rispetto delle regole. Cambiare le regole, allora, liberalizzando l’uso delle sostanze ora proibite, è forse l’unica soluzione in grado di ripristinare quelle “pari opportunità” di partenza che sono l’essenza di ogni competizione sportiva.