Indagare il rapporto tra calcio ed economia vuol dire entrare in un terreno difficile, nonostante l’uso freddo dei numeri. Non mentono mai, loro. Dipende da come si decide di usarli. Stefan Szymanski, professore di Economia alla Cass Business School dell’Università di Londra, e Simon Kuper, giornalista, ci provarono nel 2010 con il loro “Calcionomica”, libro uscito in Italia per Isbn e scritto per indagare il calcio attraverso dati, statistiche e grafici. Alcuni aspetti del saggio si dimostrarono interessanti, ma quando si trattò di applicare al calcio delle formule per descrivere gli scenari futuri, qualcosa non funzionò. I due autori, analizzando la geografia del calcio attraverso i numeri, scoprirono una formula attraverso la quale era possibile capire l’esito finale di una partita. Nella formula confluivano, oltre alla tecnica dei giocatori, altri fattori come il Pil o la crescita demografica delle due nazioni contendenti. In base a questa formula, Szymanski e Kuper dissero che i Mondiali del 2010 sarebbero stati vinti dal Brasile in finale contro la Serbia. L’Italia invece sarebbe uscita ai quarti contro la Spagna. Chi ha seguito quella Coppa del mondo sa che non è andata proprio così.
Eppure, del rapporto tra calcio e geopolitica non va buttato tutto. Anzi. C’è un parametro che può essere utilizzato per visualizzare il calcio come specchio della geopolitica: il calciomercato. Se nell’epoca dell’Italia rampante e arrivista degli anni Ottanta-Novanta si spendeva e si spandeva per dare lustro a quello che era considerato il campionato più bello del mondo, gli ultimi anni hanno coinciso con una certa austerity. Così, l’epoca del riflusso ha coinciso con le recenti stagioni, dopo che alcuni presidenti attivi negli anni Novanta ma con lo spirito da Yuppie come Sergio Cragnotti si erano addirittura quotati in borsa, con effetti non proprio piacevoli che durano tuttora. «Se potessi fare una proposta per far riprendere il calcio italiano, la prima sarebbe il delisting delle società. Il calcio deve uscire dalla borsa, è solo un modo per spennare gli azionisti, non serve a nulla investirvi in questo modo», ha spiegato di recente a Linkiesta Mauro Bottarelli, autore di “Spread & pallone”.
Non ci resta che il calciomercato, quindi. Forse. Dopo l’austerity, la ripresa. Così pare. Perché gli acquisti ci sono stati e forse ancora ce ne saranno. Roba grossa, rispetto al piattume recente. Negli ultimi anni molti sono partiti, ora qualcuno torna. Carlos Tevez è approdato alla Juve, dopo aver vinto tutto tra Sudamerica e Inghilterra. Gonzalo Higuain, 25 anni, 121 gol in 264 partite, per 40 milioni ha lasciato Madrid per Napoli. Mario Gomez, tedesco di origini spagnole, è andato via dal Bayern Monaco fresco vincitore della Champions League per accasarsi alla Fiorentina. Colpacci che hanno scatenato entusiasmo tra i tifosi e tra gli addetti ai lavori. Che evidentemente non si sono soffermati a pensare anche solo per un secondo che stiamo parlando di tre giocatori forti, certo, ma che nelle rispettive squadre dalle quali arrivano erano alla fine dell’avventura, se non addirittura panchinari. Vedi Mario Gomez: nell’ultima finale di Champions è entrato a un minuto dalla fine, come si concede alle vecchie glorie a fine carriera. Gomez ha 28 anni.
Così, il calciomercato pare rispecchiare a pieno il posto dell’Italia in Europa. I giovani se ne vanno altrove: vedi l’Inter, che lascia partire alcuni freschi protagonisti degli ultimi Europei Under 21 come Giulio Donati e Luca Caldirola. E il Milan, che fa rientrare i piedi buoni di Mario Balotelli pagandoli a peso d’oro (e a rate) dopo averli lasciati andare verso i lidi d’oro della Premier League. O la Juve, che si lascia soffiare il talentuoso Marco Verratti dagli esageratamente ricchi emiri del Paris Saint Germain. E i grandi talenti, anche stranieri, continuano a lasciare la massima serie: Jovetic ha detto ciao e se n’è andato al Manchester City.
Il caso del montenegrino è uno dei simboli di una realtà economica di cui il calcio è sintetica rappresentazione. Il giocatore esploso nella Fiorentina voleva andare alla Juve, ma è rimasto incastrato nella scaramuccia per Rcs tra Torino e Firenze. Segno che nel nostro Paese, alla fine, a comandare sono sempre i soliti due/tre grupponi industriali. Non solo. Si è creata una situazione a dir poco paradossale. Nel nostro campionato, per vincere non si investe. Si vende. Grazie al meccanismo delle plusvalenze: i casi più clamorosi restano quelli di Edinson Cavani (pagato 12 e rivenduto a 67) e Marquinhos (comprato per 4,5 milioni e venduto per 35). Una furbizia tutta italiana che più che essere specchio di un’economia, è riflesso di una mentalità. Che al momento ci relega ancora nelle serie B del Vecchio continente.
Un continente dove regna la Germania. Basta guardare il podio delle squadre che valgono di più – in termini di denaro – in Europa: Bayern Monaco, Manchester United e Real Madrid sono le prime tre. Il marchio della squadra campione d’Europa dopo la vittoria contro il Borussia Dortmund è salito dai 786 milioni di dollari del 2012 agli 860 del 2013. La prima italiana, il Milan, si trova alla nona posizione, con un valore del brand pari a 263 milioni di dollari. Ma tutte le sette italiane superano di poco il solo valore del Bayern. Il calcio tedesco appartiene al modello di un Paese che, nonostante la crisi, è capofila europeo a livello industriale: il che significa avere società e sponsor solidi. Il risultato? I bavaresi sono campioni d’Europa, dopo aver battuto un’altra tedesca, il Borussia Dortmund. Due squadre, due modelli virtuosi. Che spendono meno di quanto incassano. E quando lo fanno, nessuno fiata: vedi al capitolo Mario Goetze, passato da una squadra all’altra per quasi 40 milioni di euro.
Il podio europeo non deve ingannare però. Perché dietro la Germania, ci sono due Paesi come Inghilterra e Spagna che spendono cifre abnormi in maniera non del tutto giusta, diciamo così. La Liga, prima di tutto, è specchio della crisi spagnola. Il campionato è diviso in due: da una parte Barcellona e Real, dall’altra il resto del calcio iberico che annaspa nei debiti, nonostante le varie leggi varate ad hoc per favorire la crescita del futbol nel Paese, dalla Concursal alla Beckham. Le due big intanto fanno introiti da spavento, con le spalle coperte dalle banche fallite ma tenute in vita dalla Bce. Con lo spettro di una bolla calcistica che potrebbe esplodere da un momento all’altro, così come successo a quella del mattone. Un paragone non casuale: Florentino Perez con le speculazioni edilizie ci ha riempito le casse del suo Real, con modalità sulle quali l’Unione Europea sta indagando. Intanto a Barcellona è arrivato Neymar e a Madrid approderà Gareth Bale.
In Inghilterra si annida invece il nuovo che avanza. Ovvero i petrodollari di emiri e russi. Con il City che da qualche anno imposta campagne acquisiti faraoniche alla faccia del Fair Play finanziario e con l’Arsenal che grazie ai soldi della Emirates è pronta a prende Luis Suarez per più di 40 milioni di euro. Il City spende più di quanto incassa, come in Francia fanno il Psg e il Monaco. Il problema è che le prime due, attraverso sponsorizzazioni mascherate riceverebbero aiuti di stato: Il Paris Saint-Germain dall’ente turistico del Qatar, il Manchester City dalla Etihad, compagnia di bandiera degli Emirati. Il Monaco è in mano a Dmitrij Ryobolovlev, magnate russo di turno sullo stile Abramovich. Ovvero, gente che spende più di quanto incassa. Il magnate di stanza nel Principato ha già preso Radamel Falcao e Joao Moutinho a cifre folli e qualche giorno fa ha invitato in un hotel di lusso Cristiano Ronaldo per offrirgli un contratto da 23 milioni di euro a stagione. Le voci raccontano che il portoghese, per scaricare l’adrenalina, abbia chiesto al personale della struttura di aprigli in piena notte la palestra.
Russia e Arabia sono quindi i nuovi assi sui quali si muove la geopolitica del pallone. In tutti i sensi. Uno strapotere che si riflette sul calciomercato: l’esempio più lampante resta il mega ingaggio assicurato dai russi dell’Anzhi a Samuel Eto’o: 20 milioni (netti) a stagione. Chi stacca gli assegni all’ex attaccante dell’Inter è Suleiman Kerimov, boss di Nafta Moskva e passato dalla parte degli amici di Putin dopo che nel 2006 uno strano incidente in Ferrari rischiò di portargli via mezza faccia. E poi c’è lo Zenit di San Pietroburgo, squadra tifata dallo stesso Putin e targata Gazprom, colosso russo del gas che per costruire i gasdotti verso l’Europa si compra la benevolenza dei Paesi interessati dal suo percorso acquistando squadre di calcio, come successo con il Levski Sofia in Bulgaria.
Già, perchè i russi fanno andare di pari passo condutture di gas e pallone. Ogni riferimento a South Stream – il gasdotto che alimenterà l’Europa dalla Russia senza passare da Paesi scomodi a Mosca come l’Ucraina – è puramente voluto. In questo contesto, il premier bulgaro Boiko Borisov ha cercato i soldi di Gazprom per sponsorizzare il Cska Sofia, mentre firmava per far passare South Stream anche dal suo Paese. Peccato che la maglia della squadra del cuore del premier sia rossa, poco adatta quindi al blu Gazprom. A differenza del Levski Sofia, che sta per prendersi la sponsorizzazione e forse anche i soldi per il nuovo stadio. In Turchia non hanno voluto essere da meno e c’è chi come il presidente dell’Antalyaspor ha chiesto ad Erdogan se potesse metterci una buona parola con Putin: d’altronde la Turchia è il secondo consumatore di gas russo e il 20% viene usato proprio ad Antalya. In Germania il Bayern Monaco potrebbe presto passare dalla T-Mobile alla Gazprom, così come il Vitesse in Olanda (Paese terminale del condotto North Stream) sta per chiudere l’accordo con i russi. Per non parlare del fatto che la stessa Gazprom è divenuto uno dei main sponsor della Champions League.
Insomma, ora comandano loro: la Russia ospiterà i Mondiali del 2018, il Qatar quelli del 2022. Fra qualche anno si vedrà. Kuper, su Calcionomica, ha spiegato: «L’India non può fare peggio di così, ma può fare molto meglio. La loro esperienza, il reddito e la popolazione sono tutti parametri in crescita, entro vent’anni, potrebbero farcela».