Ogni giorno si aggiungono buoni motivi per consolidare l’impressione che non stiamo affatto uscendo dal tunnel, tuttavia non potremo continuare a lamentarci in eterno: sarà bene trovare un modello di pensiero che ci aiuti a vivere questa nostra perpetua “sospensione”. Si tratta di uno strano effetto prodotto da forze uguali e contrarie, così che mentre sulla terra qualcosa è in fase di esaurimento – le risorse, per esempio – altre energie spingono a valicare i limiti del possibile.
Analogamente, se gli organismi internazionali sono in grado, molto più che un tempo, di monitorare la condizione dei diritti dell’uomo, “il gioco delle regole” ha finito per produrre paradossalmente una compressione delle libertà. Tutto questo sembra confermare l’idea che non vi sia nulla di nuovo sotto il sole: c’è come un’energia che spinge l’uomo contemporaneo a girare, se non proprio su se stesso, almeno attorno ad un cerchio, dandogli la sensazione di trovarsi sempre allo stesso punto di partenza.
Come si fa a vivere di futuro, di attese in un tempo così bloccato, in una realtà così rarefatta e totalmente virtuale? Più che un vademecum per una nuova età dell’incertezza, ci servirebbe un pensiero che dia alla nostra attesa una vera sostanza: un pensiero a metà strada tra la beckettiana attesa di Godot e quella individuata da Derrida a proposito dell’«evento».
Quello che deve accadere non è necessariamente un evento planetario, magari traumatico e che si va a fissare in una data precisa del calendario “globale” come l’undici settembre, per intenderci. Può trattarsi anche di una giornata qualunque, magari una giornata estiva. Virginia Woolf ha scelto per esempio una giornata di giugno, quello del 1939, per dare sostanza agli avvenimenti del suo ultimo racconto: “Between the Acts”.
In un’Europa ritratta come un porcospino – perché «irta di cannoni e solcata dagli aeroplani» – ciò che deve «accadere» è già tutto nel salotto degli Oliver. Mentre le finestre lasciano trapelare le prime luci della sera, ci si prepara ad uno spettacolo che avrà luogo sulla terrazza ma, come in To the Lighthouse, sono i desideri – o forse meglio: gli oggetti del desiderio – ad occupare la scena, e non tanto il compimento e la loro soddisfazione.
È questa la filosofia che ci serve: un pensiero degli oggetti, delle piccole cose, dei desideri quotidiani, del puro istante che si produce ogni volta che siamo consapevoli di stare “tra un atto e l’altro”. Nel racconto della Woolf la conversazione si arena sulla fogna e sulle promesse non mantenute dal consiglio comunale di portare l’acqua al villaggio. Ma per fortuna vi è un’altra acqua, quella dello stagno – putrida sì, ma piena di fiori rosa e bianchi adagiati su speciali vassoi fatti di foglie – che apre al ricordo e alla scoperta di “momenti di essere” e quindi a una visione quasi mistica dell’esistenza.
Viviamo un tempo in cui ci non solo manca il lavoro ma anche la parola. Il verbo ci si blocca in gola. Eppure, come ricorda la Woolf, non è un silenzio «sulle labbra ma dietro agli occhi». Dobbiamo tornare a lasciarsi sedurre da certi istanti, da quei «moments of being» che determinano la differenza tra i ruoli che la vita ci fa recitare e le parti che invece scegliamo di interpretare. In questo modo vivremo in un intermezzo, anzi più precisamente in un intervallo «tra un atto e l’altro»: il che significa vivere la parte di esistenza che precede quel tempo pieno che viene appena prima di una recita «troppo ambiziosa, per i mezzi a disposizione». Troppo ambiziosa, per tutti.
«Allora s’alzò il sipario. E cominciarono a parlare».