«Mi sono svegliata con un sorriso, prendendo coscienza di quello che abbiamo appena fatto» è il tweet sorridente di Gigi Ibrahim, fra i ragazzi leader della rivoluzione anti-Mubarak, all’indomani della destituzione di Morsi. «È in corso un vero e proprio golpe militare in Egitto. I carri armati si stanno muovendo nelle strade», anche l’annuncio al mondo in attesa era arrivato attraverso un tweet, hashtag #SaveEgypt, autore Gehad el Haddad, portavoce della Fratellanza.
Mohamed, che lavora per una multinazionale al Cairo, risponde solo dopo mezzanotte «Scusami, ma avevo il telefono scarico, ero in piazza Tahrir dove è in corso un’enorme festa. Speriamo che la situazione si mantenga calma nei prossimi giorni».
«Morsi l’ho anche votato, ma non posso essere costretto ad affrontare tonnellate di carte ogni pochi mesi, per rinnovare la licenza» era il lamento dell’autista Ashraf appena dieci giorni fa, a raccontare i problemi di un Paese bloccato. Perché la realtà – oltre i dibattiti politici ed i social network – sono le code infinite ai distributori di benzina, i black-out a macchia d’olio al Cairo, gli scioperi continui a chiedere incrementi salariali e migliori condizioni di vita.
«In questi giorni di rivolta mi hanno spesso chiesto “E se le elezioni democratiche dovessero significare portare al Governo gli estremisti?”», raccontava una ragazza all’indomani delle grandi speranze alimentate dalle Primavere arabe. Anche la sua risposta era stata sorridente. «Ho rispetto della democrazia e ne accetterei l’esito». «E se gli estremisti costringessero te, laica, a portare il velo?». «Lo indosserei. Per poi – e il sorriso era enorme – continuare la rivoluzione».
Un’evoluzione positiva e più matura della ribellione nata contro Mubarak («ci sono voluti 18 giorni per liberarci di Mubarak dopo 30 anni, poi ci sono bastati 3 giorni per liberarci di Morsi dopo un anno» scherza ancora Gigi Ibrahim) è la convinzione o forse solo la speranza della parte più giovane e “moderna” di piazza Tahrir, quei ragazzi entusiasti che il 25 gennaio 2011 erano rimasti loro stessi sorpresi della capacità di determinare il cambiamento, ma che poi non avevano saputo trovare un’adeguata rappresentazione politica, costretti a scegliere fra esponenti del vecchio regime o la nuova forza politica della Fratellanza.
Poi c’è l’emozione nuova del “partito del divano”, come ironicamente era stata definita quella vasta popolazione silenziosa, che aveva supportato le proteste contro Mubarak, ma aveva deciso di non scendere in piazza. Ora l’ironia è dei protagonisti, che hanno deciso di unirsi alle dimostrazioni portando nelle strade i divani, a simboleggiare che anche loro saranno parte attiva del destino del proprio Paese. Del traffico impossibile del Cairo, che non subisce mutamenti con le rivoluzioni, del pane venduto su bancarelle per strada, della musica assordante delle feluche pronte a navigare sul Nilo. Delle donne velate – perché il Paese è profondamente islamico, nonostante la significativa presenza copta cristiana – che conversano lungo le strade, dei ragazzi seduti accanto a un minuscolo tavolino a chiacchierare e passare il tempo in un Paese che fatica a mostrare un futuro, dei bicchieri lavati in un secchio da chi vende tè lungo la strada.
Però ci sono i muretti dipinti con la bandiera egiziana, a indicare un processo che è iniziato, forse un’impossibilità di tornare indietro, nonostante i carro armati tornati per strada e i sostenitori dell’ex Presidente Morsi che convocano il “venerdì del rifiuto”, per rinnegare la deposizione del primo presidente democraticamente eletto. Fa sorridere la scritta “Brotherhood curva sud” (proprio così, in italiano), anche se gli ultras dell’Al-Masry e dell’al-Ahly, la squadra di calcio del Cairo, sono stati protagonisti e vittime di uno degli episodi più sanguinosi di questi due anni post Mubarak.
Poi ancora un tappeto per terra rivolto verso la Mecca, un uomo con barba folta e galabeya, due donne velate che girano un filmato con l’iPad, un pullman strapieno con persone appese alle uscite, una Mercedes che sembra del secolo scorso, ragazzi seduti sul muretto che mormorano “welcome to Egypt” senza sapere nemmeno loro se essere timidi o sfrontati.
E ancora bimbi che salutano gridando dallo scuolabus, immondizia ovunque per strada ma uno spazzino che raccoglie diligente i mozziconi delle sigarette, una moschea che si affaccia sul Nilo e accanto un giardino che prova ad essere curato. Una donna completamente velata e un frammento di viso assai giovane e poco sorridente, un ragazzino con la bottiglietta di Pepsi Cola in mano, l’insegna di un negozio (forse chiuso) che vende “cucine orientali e occidentali”, un negozio chiamato “Pomodoro” e chissà se qualcuno ne conosce il significato. Poi l’edificio del “The National Council for Women” annerito, chissà se per gli incendi delle rivoluzioni o come simbolico decadimento di diritti troppo spesso negati.
È comporre il mosaico di questi 90 milioni – tanti sono gli abitanti dell’Egitto – mostrare loro un futuro in una situazione di gravissima crisi economica, la sfida persa di Morsi. Ma «Mabrouk all’Egitto della libertà», dice Ahmed, «anche stavolta abbiamo dimostrato di sapere cambiare una storia che gli altri ritenevano già scritta».